martedì 30 marzo 2010

L'attacco alla base navale di Taranto

La dichiarazione di guerra dell’Italia alla Grecia comportò, da parte degli inglesi, l’invio sempre maggiore di materiale bellico in aiuto all’esercito greco. Bisognava quindi organizzare continui convogli marittimi tra l’Egitto e la Grecia e, ogni volta, il rischio che le navi inglesi correvano attraversando il Mediterraneo era notevole. Il pericolo, più che dagli attacchi dell’aviazione italiana (rivelatisi in realtà poco efficaci), era rappresentato dalla vicinanza di Taranto alla Grecia: le navi italiane, infatti, avrebbero potuto raggiungere velocemente e distruggere i convogli britannici in navigazione.
Inoltre, e questo fu il secondo motivo dell’attacco a Taranto, i britannici dovevano rifornire il loro caposaldo di Malta; per loro Malta era strategica perché, essendo situata tra la Sicilia e la Tunisia, era sulla rotta che percorrevano i convogli italiani diretti in Libia.
Fu per questi motivi che gli inglesi pensarono di organizzare un’operazione con l’obiettivo di colpire le navi italiane mentre si trovavano ormeggiate nella loro base di Taranto. Un piano di attacco che prevedeva l’utilizzo di aerosiluranti era stato preparato negli anni precedenti da George Lyster (nell’autunno 1940 nominato capo della divisione di portaerei situata ad Alessandria) e questi l’aveva sottoposto al Comandante in Capo della Mediterranean Fleet, Ammiraglio sir Andrew Cunningham.
Il piano era rischioso perché Taranto era una base potentemente difesa con batterie antiaeree, cannoni, mitragliere pesanti e proiettori luminosi. Inoltre, le portaerei, da cui sarebbero decollati i velivoli previsti per la missione, si sarebbero dovute portare vicino alle coste italiane con il rischio di essere scoperte da pattuglie nemiche. D’altro canto, però, gli inglesi potevano sfruttare il fattore sorpresa dato che i comandi italiani ritenevano improbabile un attacco aereo contro la loro base, soprattutto durante le ore notturne.
Il 3 novembre, sette navi mercantili, con al seguito alcuni incrociatori e cacciatorpediniere, erano partite da Alessandria per portare benzina e armamenti a Suda e a Malta. Contemporaneamente gli incrociatori Ajax e Sydney erano partiti, sempre dalla stessa base, per trasferire truppe Creta.
Il pomeriggio del 6 novembre, invece, partirono quattro corazzate, la portaerei Illustrious, due incrociatori e tredici cacciatorpediniere tutti diretti verso La Valletta.
Il giorno successivo la Forza H (composta dalla portaerei Ark Royal, una corazzata, due incrociatori e sei cacciatorpediniere) salpò da Gibilterra con il compito di trasportare 2.150 soldati alla guarnigione di Malta.
Tutti questi convogli provenienti avevano lo scopo di confondere gli italiani sul vero obiettivo dei futuri attacchi inglesi, il porto di Taranto.
Il radar della Illustrious scoprì alcuni ricognitori italiani che vennero abbattuti prima di aver potuto avvertire della presenza delle navi inglesi; esse poterono giungere a Malta nella giornata del 10 novembre. La sua efficace copertura aerea, inoltre, non permise agli italiani di seguire lo spostamento della flotta britannica e, il giorno 11, questa lasciò Malta per dirigersi verso il punto prefissato da cui sarebbero decollati gli aerei per attaccare Taranto.
Quella stessa sera nella base italiana erano presenti sei corazzate (Andrea Doria, Caio Duilio, Conte di Cavour, Giulio Cesare, Littorio e Vittorio Veneto), sette incrociatori pesanti (Bolzano, Fiume, Gorizia, Pola, Trento, Trieste e Zara), due incrociatori leggeri (Duca degli Abruzzi e Garibaldi) e alcuni cacciatorpediniere. Il numero di navi era cosi elevato perché gli italiani erano stati costretti a concentrarvi il grosso della loro forza navale dato il numero alto di navi di rifornimento inglesi che percorrevano il Mediterraneo. L’intero porto era difeso dalla diga della Tarantola, una muraglia in massi e calcestruzzo che però era stata concepita come antisommergibile e non contro l’aerosiluramento. Vi erano inoltre 87 palloni frenati, posti nei punti da cui più probabile sarebbe giunta un’incursione nemica: 60 di questi erano però stati strappati dai forti venti che fino al giorno precedente avevano spazzato la base, e non si erano potuti rimpiazzare.
Alle 20.30 la portaerei Illustrious fece iniziare le operazioni di decollo per gli aerei della prima ondata. Questi giunsero sull’obiettivo qualche minuto prima delle 23.00; sei “Swordfish” scesero a quota di siluramento e squarciarono la fiancata sinistra della corazzata Cavour (che cominciò poi ad imbarcare acqua) e altri due tentarono di colpire l’Andrea Doria ma senza riuscirci. Nel frattempo quattro bombardieri attaccarono, danneggiandoli, i cacciatorpediniere Libeccio e Pessagno mentre, alle 23.15, due aerosiluranti colpirono la Littorio sia a dritta che a sinistra. Un ultimo Swordfish, sganciò un siluro contro la Vittorio Veneto ma la nave non venne colpita. Gli aerei si ritirarono alle 23.20.
Alle 23.30 vennero avvistati gli aerei della seconda ondata. A mezzanotte uno Swordfish colpì con un siluro la Duilio, altri due aerosiluranti danneggiarono la Littorio e un altro aereo attaccò la Vittorio Veneto ma ancora senza successo. Infine due bombardieri ed uno Swordfish si diressero verso le navi ancorate nel Mar Piccolo e colpirono alcuni compartimenti inferiori e i depositi di carburante del Trento. Gli ultimi aerei si ritirarono alle 0.30 del 12 novembre.
Alla fine le vittime dell’attacco furono 59.
Quella stessa notte i radar di alcuni incrociatori britannici individuarono, all’altezza di Brindisi, un convoglio italiano di quattro mercantili diretto in Albania. Gli incrociatori si avvicinarono ed aprirono il fuoco con i loro 24 cannoni affondando tutte e quattro le navi italiane. Due mezzi di salvataggio riuscirono a recuperare 140 uomini mentre i dispersi furono 25.
Per la marina italiana le conseguenze dell’attacco a Taranto furono enormi: la Cavour venne trasferita a Trieste per riparazioni ma non riprese più servizio per tutta la guerra, la Littorio fu inutilizzabile per più di quattro mesi e la Duilio rimase in bacino fino al maggio del 1941. La flotta italiana, in pratica, non riuscì più a passare all’offensiva per oltre un mese. Winston Churchill disse che questa era “la prima incoraggiante notizia dall’inizio della guerra”.
Dalla parte opposta solo due aerei britannici vennero abbattuti rivelando quanto fossero inadeguate le difese di Taranto. Si riteneva che gli aerosiluranti non avessero potuto colpire, a causa dei bassi fondali, le navi all’interno del porto ma venne dimostrato il contrario. Inoltre, non vennero mai utilizzate le cortine fumogene per nascondere le navi sotto attacco e non vennero mai messi in funzione i protettori ad arco voltaico per abbagliare i piloti inglesi.
Con questa incursione si dimostrò che l’aviazione era ormai fondamentale nelle battaglie navali e le portaerei divennero la componente più importante di una flotta; gli aerei imbarcati, infatti, potevano sia difendere le proprie formazioni sia attaccare quelle avversarie. Finiva invece l’epoca delle corazzate, dotate si di potenti artiglierie ma troppo lente e vulnerabili di fronte a un attacco aereo e troppo difficili da rimpiazzare.

L'attacco a Pearl Harbor

Alle 5 del mattino del 7 dicembre 1941, dagli incrociatori giapponesi, furono catapultati due idrovolanti per cercare le portaerei americane ma la ricerca fu vana.
Alla stazione radio di Bainbridge Island, intanto, fu intercettato e decriptato un importantissimo messaggio in codice “Purple”: esso ordinava all’ambasciatore giapponese di presentare al Segretario di Stato americano la comunicazione ufficiale della rottura dei negoziati esattamente alle ore 13 del giorno 7 (ora di Washington).
Il messaggio fu tradotto entro le ore 6 ma solamente alle 9.15 arrivò all’ammiraglio Stark, capo delle operazioni navali; altri 35 minuti passarono prima che giungesse al Segretario di Stato e altri 70 prima che lo vedesse il generale Marshall, Capo di Stato Maggiore Generale degli Stati Uniti.
Marshall propose subito a Stark di trasmettere un avviso di guerra a tutte le forze armate ma questi non approvò; preparò, allora, un suo personale messaggio ai comandanti dell’esercito che fu consegnato, per la cifratura e l’invio, alle ore 12.
A quell’ora, però, Nagumo aveva già dato l’ordine di attacco, nonostante nutrisse dei dubbi riguardanti il fatto che le portaerei americane “Lexington” ed “Enterprise” non si trovassero ormeggiate nella rada (avevano l’incarico di trasportare velivoli alle basi di Midway e Wake).

LA PRIMA ONDATA

La prima ondata di aerei giapponesi (49 bombardieri in quota, 43 caccia “Zero”, 40 aerosiluranti e 51 bombardieri in picchiata) partì alle 6.15 al comando di Mitsuo Fuchida; furono avvistati da due operatori radar in servizio presso la stazione di Opana e questi ne calcolarono subito la direzione di avvicinamento. La loro segnalazione fu, però, ignorata dal centro d’informazione, il quale sostenne che, probabilmente, i velivoli identificati corrispondevano a una squadriglia di “fortezze volanti” in arrivo dal continente.
Intanto, alle 6.45, al largo del porto, un sommergibile giapponese fu affondato, con bombe di profondità, dal cacciatorpediniere americano “Ward” che si trovava in pattugliamento notturno. Nemmeno l’allarme lanciato dall’unità statunitense fu preso in considerazione poiché si riteneva del tutto impossibile che potesse essere stato colpito un sottomarino nipponico.
Alle 7.48 Fuchida inviò per radio il segnale “To, To, To” (“lotta”) facendolo seguire, poco dopo, dal famoso “Tora! Tora! Tora!” (“tigre”) per comunicare che la sorpresa dell’attacco stava per riuscire.
Alle 7.55 i bombardieri in picchiata e gli aerosiluranti presero di mira i campi d’aviazione e le corazzate; la “West Virginia”, l’”Arizona”, la “Nevada”, l’”Oklahoma” e la “California” furono subito colpita dai siluri insieme agli incrociatori leggeri “Raleigh” e “Helena”. Una bomba giapponese perforò i 13 cm di corazzatura di una torretta della “Tennessee” ed esplose al suo interno mentre un’altra colpì i depositi di prua della “Arizona” che saltò letteralmente in aria; anche la “Maryland” fu colpita riportando ingenti danni.
Il campo d’aviazione di Hickham e la base aerea dell’esercito di Wheeler Field furono distrutte insieme alla stragrande maggioranza degli aerei che vi si trovavano.
Alla fine della prima ondata di velivoli del Sol Levante, intorno alle ore 8.25, gli aerei statunitensi che si trovavano erano praticamente stati tutti danneggiati o distrutti; la “West Virginia”, l’”Arizona” e la “Oklahoma” erano affondate o in procinto di farlo, la “Tennessee” era avvolta tra le fiamme e l’incrociatore “Raleigh” era mantenuto diritto solamente grazie ai suoi cavi di ormeggio.

LA SECONDA ONDATA

Alle 8.54 arrivò la seconda ondata di aerei giapponesi (decollati alle 7.15 dalla “Zuikaku”) composta da 54 bombardieri, 36 caccia “Zero” e 80 bombardieri in picchiata guidati dal comandante Shimazaki. In questa seconda fase la difesa americana fu molto più efficace dato che, nel frattempo, i cannoni contraerei statunitensi erano stati riforniti di munizioni ed era aumentato anche il numero di uomini che facevano da serventi ai pezzi. Ventinove bombardieri in picchiata giapponesi furono abbattuti ma, nonostante questo, la corazzata “Pennsylvania” fu danneggiata insieme a due cacciatorpediniere che si trovavano con essa nel bacino di carenaggio; i bombardieri in quota, intanto, arrecarono ulteriori danni alle navi già colpite in precedenza.
Alle ore 10 l’attacco terminò.

Le perdite giapponesi furono davvero minime: consisterono solamente in 9 caccia, 15 bombardieri in picchiata e 5 aerosiluranti. Gli americani, invece, tra militari e civili della base, contarono 3.405 morti e oltre mille feriti.
Nonostante fosse sollecitato dai suoi comandanti a proseguire l’attacco e a perlustrare il mare per cercare le portaerei nemiche, Nagumo, alla fine, decise di rinunciare e ordinò alla sua formazione navale di mettersi in rotta verso il Giappone (arrivarono il giorno 23 nella rada di Hashirajima).
Siccome il suo successo nell’attacco a Pearl Harbor fu totale, ritenne che proseguire con l’offensiva avrebbe significato sfidare la fortuna.
Il primo ministro Tojo tenne alla radio un esaltato discorso in cui affermava che l’intera flotta statunitense del Pacifico era stata distrutta; questo, invece, non era per nulla vero perché, innanzitutto, le portaerei erano ancora pienamente operative dato che non si trovavano nel porto e, inoltre, la maggioranza delle navi colpite dall’attacco nipponico furono, in breve tempo, riparate (tra cui sei corazzate). Infine, non erano stati distrutti i serbatoi pieni di carburante e le attrezzature di riparazione del porto; senza carburante la baia di Pearl Harbor sarebbe stata praticamente inutilizzabile per un lungo periodo.
L’attacco riuscì ma non si rivelò affatto decisivo come sperava Yamamoto.
L’8 dicembre 1941 il Congresso degli Stati Uniti dichiarò guerra al Giappone con il solo voto contrario di Jeannette Rankin.

LA DICHIARAZIONE DI GUERRA TEDESCA AGLI STATI UNITI

L’attacco giapponese colse completamente di sorpresa la Germania. Nonostante Hitler avesse promesso ai nipponici che la Germania si sarebbe unita al Giappone in un’eventuale guerra con gli Stati Uniti, formalmente l’accordo non era stato ancora concluso e i giapponesi non avevano mai parlato al Fuhrer del piano d’attacco contro Pearl Harbor.
Fu l’ambasciatore nipponico a Berlino, Oshima, che, la mattina dell’8 dicembre, dette conferma dell’offensiva a Ribbentrop.
Hitler convocò il Reichstag per l’11 dicembre e tenne un discorso molto aggressivo nei confronti di Roosevelt, accusandolo di essere il responsabile, insieme ai milionari e agli ebrei, dello scoppio del conflitto con lo scopo di giustificare il fallimento del “New Deal”.
Alle 12.30 Ribbentrop ricevette l’incaricato d’affari americano a Berlino Leland Morris e gli lesse la dichiarazione di guerra.

Si avvicina Pearl Harbor....

Il piano giapponese era di conquistare intatti i giacimenti dell’Asia meridionale e di portare, poi, il petrolio, la gomma, lo stagno e la bauxite in patria senza subire incidenti. Infatti, a minacciare le future linee di rifornimento nipponiche, vi erano la base inglese di Singapore e quelle americane nelle Filippine. Con il possesso di queste ultime e della Malesia si sarebbero eliminati tutti i possibili avversari per poi procedere alla conquista del Borneo, di Giava e di Sumatra, le isole produttrici di greggio.
L’Ammiraglio Isoroku Yamamoto, Comandante in Capo della Flotta Combinata Imperiale, agli inizi del 1941 non era favorevole a un attacco contro gli Stati Uniti. A differenza della fazione militare guidata dal generale Tojo, infatti, Yamamoto riteneva che, nonostante i probabili successi iniziali dei nipponici, alla fine l’enorme potenziale di cui disponevano gli americani avrebbe fatto pendere le sorti del conflitto a loro favore; una volta arrivati a quel punto, il Giappone si sarebbe potuto presentare alle eventuali trattative di pace solamente se fosse riuscito ad insediarsi nel sud-est asiatico.
Per raggiungere quest’obiettivo Yamamoto elaborò un piano di attacco per impedire l’intervento statunitense nella guerra e procedere, poi, alla conquista dell’Asia meridionale; il piano consisteva nell’attaccare la base della “Pacific Fleet” a Pearl Harbor, nell’isola hawaiana di Oahu, distante 3.400 miglia dal Giappone.
Al contrammiraglio Takijiro Onishi (capo di stato maggiore dell’11° squadra aerea) fu affidato l’incarico di valutare la fattibilità di un attacco aereo sul porto hawaiano. Onishi chiamò anche il generale di brigata aerea Minoru Genda e quest’ultimo, alla fine di maggio, giunse alla conclusione che l’offensiva avrebbe avuto buone probabilità di successo solo se vi fossero state impiegate tutte e sei le portaerei della flotta mantenendo anche, sui preparativi, la più assoluta segretezza.
Il piano fu bocciato dal Capo di Stato Maggiore Generale della Marina, ammiraglio Nagano, il quale riteneva che le portaerei sarebbero servite per l’avanzata verso sud e che mantenere il riserbo su un’operazione che comportava una traversata oceanica di 3.400 miglia era molto rischioso. Nonostante questo, Yamamoto fece esercitare i suoi gruppi di velivoli per il bombardamento di bersagli che si trovavano in specchi d’acqua ristretti proprio come Pearl Harbor (le esercitazioni erano fatte nella baia di Kagoshima, nell’isola di Kyushu). Furono anche apportate delle modifiche ai siluri con l’aggiunta di alette stabilizzatrici per consentire ai siluri stessi di andare a segno anche in acque profonde solamente una decina di metri.
Yamamoto era fermamente convinto che l’unica possibilità di successo per il Giappone consistesse nel riportare rapidi successi iniziali contro gli Stati Uniti in modo da ridurne l’efficacia della flotta e poter, quindi, poi negoziare da posizioni di forza. Minacciò, addirittura, di dimettersi se la sua strategia non fosse stata approvata.
Il 3 settembre il piano fu approvato; consisteva nell’attraversare il Pacifico settentrionale fino a un punto a nord di Oahu dal quale far levare in volo gli aerei destinati ad attaccare Pearl Harbor.
Intanto, sul fronte diplomatico, il Giappone presentò agli Usa due proposte. La prima prevedeva l’occupazione giapponese di almeno una parte della Cina fino al 1966 e non ottenne risposta; con la seconda, invece, il Sol Levante s’impegnava a non occupare le isole produttrici di petrolio se gli Stati Uniti non si fossero messi in mezzo nel loro conflitto con i cinesi.
Prima di ottenere la risposta dagli Usa, i giapponesi riunirono le sei portaerei destinate all’attacco di Pearl Harbor nella baia di Tankan, a Etorofu, la più grande delle isole Curili, per imbarcare carburante e gli appositi siluri modificati. Per coprire tutta la manovra ciascuna portaerei partì separatamente e mantenne il silenzio radio, mentre altre navi mandarono falsi messaggi per ingannare il servizio d’intercettazione statunitense.
Dopo che il 25 novembre Yamamoto impartì gli ordini esecutivi per l’attacco (uno dei principali era proprio di non effettuare trasmissioni per sfruttare al massimo il fattore sorpresa, difatti se le navi fossero state scoperte prima del 6 dicembre l’operazione sarebbe stata sospesa), all’alba del 26 salparono, al comando dell’ammiraglio Nagumo, le sei portaerei (“Akagi”, “Kaga”, “Hiryu”, “Soryu”, “Shokaku” e “Zuikaku” che trasportarono un totale di 423 velivoli) scortate da due corazzate, due incrociatori pesanti, un incrociatore leggero, nove cacciatorpediniere e altre unità d’appoggio comprendenti le petroliere per il rifornimento.
Esse puntarono verso est lungo il quarantatreesimo parallelo, lontano da tutte le normali rotte di navigazione.
Prima di loro era partita dal Giappone una squadra di 27 sottomarini; cinque di essi trasportavano sommergibili tascabili che, con due uomini di equipaggio, sarebbero dovuti penetrare a Pearl Harbor in contemporanea all’attacco aereo. Gli altri, oltre a svolgere compiti di scorta alla formazione di portaerei, avrebbero dovuto cogliere l’occasione favorevole per attaccare qualsiasi nave americana che fosse riuscita a fuggire in mare aperto.
Sul fronte diplomatico, gli americani risposero alle proteste nipponiche con i cosiddetti “10 punti” di Hull con cui si ribadiva la richiesta del ritiro delle truppe nipponiche dalla Cina. Le trattative furono, in pratica, interrotte. I giapponesi considerarono le richieste della controparte come un ultimatum e il primo dicembre la Conferenza Imperiale dette il definitivo via libera all’attacco militare. La conferma dell’operazione arrivò alle navi di Nagumo con il messaggio in codice “Niitaka Yama Nobore” (“Scalare il monte Niitaka”); dopo essersi rifornite di carburante il giorno 4, esse si mossero in direzione sud-est, attraversando la linea internazionale del cambiamento di data, verso un punto situato 500 miglia a nord di Pearl Harbor.
Intanto, a Washington, le possibilità che gli Usa subissero un attacco aereo erano sempre state poco considerate e, infatti, alle Hawaii le esercitazioni erano svolte raramente e in modo blando; inoltre gli impianti avevano frequenti guasti e gli operatori dei radar e dei centri di controllo erano scarsamente addestrati.
Per i Comandanti della Marina americana, però, l’eventualità di un’offensiva nipponica verso gli Stati Uniti era tutt’altro che da scartare e impartirono alla “Pacific Fleet” ordini che indicavano precise istruzioni da eseguire in caso di azioni ostili giapponesi. Tutti i mercantili statunitensi che si fossero trovati nel Pacifico occidentale avrebbero dovuto dirigere immediatamente verso porti amici; inoltre le isole di Wake e Midway furono rinforzate con truppe di marines, velivoli da ricognizione e scorte di munizioni.
Mentre si avvicinavano al punto di lancio degli aerei, i giapponesi, ascoltando i messaggi radio americani, ebbero la conferma che alle Hawaii era tutto tranquillo e che il nemico, quindi, ignorava il loro prossimo attacco, anche se alcuni rapporti confermarono che nel porto si trovavano solo le corazzate e non le portaerei “Enterprise” e “Lexington” (stavano trasportando velivoli alle isole vicine).
La sera del 6 dicembre, sull’albero maestro della “Akagi”, la portaerei sulla quale si trovava Nagumo, fu issata la bandiera usata nel 1905 dall’ammiraglio Togo nella battaglia di Tsushima contro i russi.
La squadra si diresse, infine, verso il punto scelto per fare decollare i velivoli destinati all’attacco a Pearl Harbor.

Caccia alla Bismarck

La corazzata “Bismarck” fu consegnata alla Marina tedesca ad Amburgo nel 1940 ed entrò in servizio il 24 di agosto; al suo comando fu nominato Ernst Lindemann.
Era una delle navi migliori mai costruite ed era molto avanzata sia nelle prestazioni che nei materiali. Aveva un sistema di paratie tali da impedire ai proiettili nemici di entrare nella parte viva della nave e il tipo di acciaio con cui era costruita era più flessibile e meno incline a squarciarsi.
Il comandante dell'OKM (Oberkommando der Marine), ammiraglio Erich Räeder, decise di utilizzare la Bismarck con un duplice scopo: proteggere le navi di superficie dalle corazzate britanniche e attaccare i mercantili che rifornivano la Gran Bretagna.
Insieme all’incrociatore Prinz Eugen e a tre cacciatorpediniere, la Bismarck ricevette l’ordine di trasferirsi nell'Atlantico, dove si sarebbe riunita con il Gneisenau per intercettare i convogli mercantili diretti in Inghilterra. L'operazione venne denominata in codice “Rheinübung” e al comando di tutto il gruppo navale fu messo l'ammiraglio Gunther Lütjens.

Operazione “Rheinübung”

L'operazione Rheinübung doveva avere il massimo di segretezza ma la squadra tedesca fu avvistata, mentre usciva dal Kattegat, dall'incrociatore svedese Gotland; le navi sostarono poi per qualche giorno nel Fiordo di Bergen.
Come gli inglesi ne furono informati, iniziarono subito a pattugliare il mare del Nord con la Home Fleet.
La squadra tedesca salpò da Bergen alle 19:30 del 21 maggio, rotta nord-ovest e il mattino iniziarono il forzamento del canale di Danimarca.
Fu l’incrociatore Suffolk che, alle 18 del 23 maggio, avvistò la formazione tedesca vicino alla costa della Gronelandia; insieme al Norfolk e ad altri due incrociatori seguirono la squadra nemica mentre si stavano avvicinando anche la Hood e la Prince of Wales. Salparono anche la corazzata King George V con la portaerei Illustrious e la loro scorta.

La battaglia dello Stretto di Danimarca

Alle 5:52 del 24 maggio 1941 l'Hood aprì il fuoco sulla Prinz Eugen ma venne prima colpita, nella parte posteriore, da una salva della Prinz Eugen e, successivamente, da una della Bismarck. Un proiettile esplose in una santabarbara contenente i proiettili da 381 provocando un'enorme esplosione che spezzò in due parti la nave inglese.
Alle 6:00 l'Hood affondò e solamente in 3 marinai (dei 1.417 totali) si salvarono.
La Bismarck e Prinz Eugen riuscirono a danneggiare anche la Prince of Wales la quale si disimpegnò dalla battaglia.
A questo punto non c'erano più ostacoli perché le due navi potessero entrare nell'Atlantico.
Nel corso della battaglia anche la Bismarck incassò tre colpi dalla Prince of Wales, di cui l’ultimo provocò una perdita di nafta ed un allagamento dei serbatoi, impedendo alla nave di tenere la piena velocità.
La corazzata, per le necessarie riparazioni, doveva quindi giungere in un porto amico. Quelli più vicini erano in Norvegia ma, per arrivarvi, avrebbe dovuto riattraversare il Canale di Danimarca (dirigendosi, quindi, verso gli incrociatori inglesi che la seguivano) e, inoltre, sarebbe dovuta passare non molto distante da Scapa Flow, la principale base della Home Fleet inglese.
Alla fine Lütjens decise di separare le due navi della sua squadra; il Prinz Eugen si diresse a sud della Gronelandia per rifornirsi di carburante e proseguire la missione contro i navigli nemici (arrivò, comunque, il primo giugno in Francia dato che le caldaie e le eliche avevano bisogno di revisioni); la Bismarck, invece, navigò verso la Francia con obiettivo il porto di Brest.

La caccia alla Bismarck

Appena fu noto l'esito della battaglia, l'Ammiragliato spostò tutte le navi che aveva a disposizione nell'Atlantico. La Bismarck fu attaccata dagli Swordfish lanciati dalla Victorious subendo un solo colpo che non provocò danni.
Prima dell’arrivo di altri aerosiluranti e delle corazzate nemiche Lindemann riuscì a sottrarsi ai radar britannici e, alle 3:13 della notte, il Suffolk perse il contatto con la corazzata tedesca.
Anche la Forza H (composta dalla portaerei Ark Royal dall’incrociatore da battaglia Renown e dall’incrociatore Sheffield), partita da Gibilterra, ricevette l'ordine di unirsi alle forze che dovevano intercettare la Bismarck.
La mattina del 25 maggio un’errata triangolazione, fatta dalle stazioni inglesi dopo che era stato intercettato un messaggio radio spedito da Lütjens, mandò fuori rotta sia la Home Fleet che la squadra composta dal Suffolk e dal Norfolk.
Alle 10.30 del 26 maggio un Catalina ritrovò la Bismarck e ne individuò la posizione avvertendo l'Ammiragliato. Si trovava a 700 miglia da Brest ed era fuori dall’area di protezione della Luftwaffe. La forza che le si trovava più vicino era la Forza H; prima delle 15, dalla portaerei “Ark Royal” furono lanciati gli Swordfish che, dopo un primo attacco contro lo”Sheffield” (erroneamente scambiato per la corazzata tedesca), alle 20:53 giunsero in vista del loro obiettivo. Gli aerosiluranti colpirono la Bismarck con due colpi: uno a centro nave, che non provocò danni, ed uno a poppa che danneggiò il meccanismo di controllo del timone facendolo rimanere bloccato a 15°.
Il colpo subito segnò la fine per la Bismarck. Non era più manovrabile e, con il timone bloccato, era obbligata a procedere in tondo.
Nella notte fu attaccata dalla flotta dell'ammiraglio Vian (che era di scorta ad un convoglio) da cui partirono 14 siluri lanciati da cinque cacciatorpediniere; nessuno di essi, però, centrò il bersaglio.
Alle 8:43 del mattino dopo fu avvistata dalla Home Fleet; la prima nave ad aprire il fuoco fu il Rodney seguito, un minuto dopo, dalla King George V. Il Rodney mise a segno 4 colpi da 406 mm provocando danni alla direzione di tiro e alle torri prodiere e impedendo alla Bismarck di reagire ai colpi nemici.
Le navi britanniche ormai sparavano da meno di 9 km e bersagliarono la corazzata tedesca con 300 colpi.
Nonostante tutti i proiettili ricevuti la Bismarck non affondava; toccò all’incrociatore Dorsetshire attaccare colpendo tre volte ma, nel frattempo, i marinai tedeschi avevano ormai piazzato tutte le cariche esplosive per colare a picco la loro nave.
Alle 10.36 del 27 maggio 1941 la Bismarck affondò definitivamente; il Dorsetshire trasse in salvo 110 uomini ma ne morirono 2.000.

La rivolta in Iraq del 1941

Nel 1920 l'Iraq fu posto, per dieci anni, sotto il mandato britannico e governato dal re Feisal ibn Hussein. Alla fine del decennio, nel 1930, Gran Bretagna e Iraq sottoscrissero un trattato grazie al quale a quest’ultimo veniva riconosciuta una formale indipendenza; gli inglesi, però, a tutti gli effetti, continuavano a decidere le sorti sia politiche che economiche del Paese. Londra, attraverso politici a lei fedeli e mediante il mantenimento di proprie basi terrestri, aeree e navali, controllava le enormi risorse petrolifere, essenziali per gli interessi dell’Impero britannico.
Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, nelle forze armate irachene si affermò un forte risentimento verso gli inglesi; ai loro vertici vi erano gli esponenti del cosiddetto “Quadrato d’oro”, quattro generali che, pur di liberarsi della presenza britannica, erano disposti anche a un’alleanza con Germania ed Italia. Questi quattro generali erano i comandanti della prima e terza Divisione, il comandante delle Forze meccanizzate e il comandante dell'Aeronautica.
Quando scoppiò il secondo conflitto mondiale la Gran Bretagna pretese che l'Iraq (governato ora da un reggente, Abd al-Ilah, in nome del nipote di Feisal avente lo stesso nome del nonno: Feisal II), in base all’articolo 4 del Trattato del 30 giugno 1930, interrompesse le relazioni diplomatiche con Hitler.
Questo creò diversi malumori nell’esercito e nell’opinione pubblica irachena che vedeva così svanire la propria indipendenza; l’8 gennaio 1940, venne assassinato il ministro delle finanze Rustem Ḥaydar, noto per le sue posizioni filo inglesi; poco dopo cadde anche il governo e il nuovo incarico venne dato ad Ali al-Kaylani, avvocato nazionalista, antibritannico e già due volte premier.
Gli inglesi reagirono duramente e chiesero ad Abd al-Ilah (Reggente per il minorenne Faysal ibn Ghazi) di far dimettere il nuovo Primo Ministro; egli acconsentì e, nel gennaio del 1941, affidò l’incarico a Taha al-Hashimi, un ex generale con posizioni decisamente più favorevoli alla Gran Bretagna.
Come risposta Ali al-Kaylani e il “Quadrato d’oro”, il 2 aprile 1941, portarono a compimento un colpo di Stato avendo il pieno sostegno delle forze armate e di buona parte dei partiti politici iracheni; destituirono sia Taha al-Hashimi sia il re Feisal II (che si rifugiò nell’ambasciata americana) dando vita a un governo marcatamente filotedesco.
La prima cosa che fecero fu quella di circondare la base aerea inglese di al-Ḥabbaniyya (a una novantina di chilometri da Baghdad) situata nel centro del Paese; inoltre furono chiuse le valvole dell'oleodotto che collegava i pozzi petroliferi di Kirkuk al porto di Haifa spostandone il flusso verso depositi in Siria controllati dalle forze francesi di Vichy e, quindi, dalle forze dell’Asse.
In pratica il nuovo governo iracheno voleva impedire alla Gran Bretagna di utilizzare il proprio petrolio utilizzandolo, invece, come merce di scambio per ricevere aiuti da parte della Germania. I tedeschi, però, inviarono solamente alcuni caccia Messerschmitt BF-110, pochi bombardieri Heinkel e alcune apparecchiature contraeree.
La guerra che ne seguì durò una quarantina di giorni e si concluse con la vittoria inglese; gli iracheni ricorsero anche all’allagamento delle zone intorno alla base aerea di al-Ḥabbaniyya pur di ostacolare l’avanzata nemica ma, il 30 maggio, quando i britannici erano ormai alla periferia di Baghdad, si arresero.
Ali al-Kaylani fuggì dal paese e riparò prima in Persia e poi in Turchia; i generali del “Quadrato d’oro” vennero, invece, arrestati e condannati a morte. Venne disarmata la polizia, colpevole di essere troppo antibritannica, venne vietata la possibilità di costituire partiti politici e venne imposta la censura.

L’invasione della Siria

L’8 giugno 1941, dopo avere represso la rivolta in Iraq, gli inglesi, insieme a truppe indiane e della “Francia Libera” e comandata dal generale Henry Wilson, invasero anche la Siria.
L’offensiva fu condotta sia da ovest che da sud; ad essa si contrapponeva l’esercito siriano, composto da circa 35.000 uomini, agli ordini del generale Dentz.
I siriani, numericamente inferiori e impossibilitati dal ricevere aiuti dalla Germania, resistettero strenuamente e causarono forti perdite alle truppe attaccanti. Alla fine, però, il 22 giugno, Damasco cadde in mano nemica e, il 10 luglio, Dentz si arrese ottenendo l’onore delle armi.

Gli Stati Uniti prima di Pearl Harbor

Nel settembre del 1939, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’opinione pubblica americana, nonostante simpatizzasse, per la maggior parte, per lo schieramento alleato, era fermamente contraria a entrare in guerra contro la Germania.
Anche il presidente Franklin Delano Roosevelt in un discorso del settembre 1939 affermò: “Questo paese resterà un paese neutrale, ma io non posso chiedere che anche ogni americano resti neutrale in cuor suo. Anche un neutrale ha diritto a tener conto dei fatti. Anche a un neutrale non si può chiedere di chiudere gli occhi di fronte alla realtà o di far tacere la propria coscienza”.
Anche dopo la vittoria nazista su Danimarca e Norvegia, da un sondaggio risultò che più della metà degli americani era contraria all’idea di dare un aiuto anche soltanto economico agli Stati invasi.
Nel 1940 Roosevelt cercò anche di convincere, in tutti i modi, Mussolini a non entrare nel conflitto ma i suoi appelli rimasero vani; respinse anche le continue richieste francesi e inglesi di schierarsi al loro fianco con il motivo che un abbandono della neutralità statunitense non si poteva verificare.
Con le continue sconfitte che i tedeschi inflissero agli Alleati nella prima metà del 1940, però, gli americani si resero conto del fatto che tra loro e la Germania ormai era rimasto solo l’Atlantico; la popolarità di Roosevelt aumentò in maniera decisa. Dalla sconfitta della Francia in poi gli Usa s’impegnarono maggiormente ad appoggiare la Gran Bretagna; per contrastare l’avanzata delle truppe di Hitler e, allo stesso tempo, non andare contro l’opinione prevalente nella popolazione, Roosevelt impostò una politica di aiuti economici e militari (diede in prestito agli inglesi una cinquantina di cacciatorpediniere). Chiese, inoltre, al Congresso di aumentare i fondi per l’esercito, la marina e l’aeronautica e, entro l’ottobre del 1940, gli stanziamenti per la difesa salirono a più di diciassette miliardi di dollari.
Roosevelt, che era del partito democratico, decise di ricandidarsi per un terzo mandato presidenziale e il suo avversario fu il repubblicano Wendell Wilkie, anche lui contrario alla politica isolazionista. Con qualsiasi risultato elettorale, quindi, l’appoggio americano alla Gran Bretagna non sarebbe venuto a mancare. Per avere il sostegno di entrambi i partiti alla sua politica estera, Roosevelt, il 19 giugno, nominò i repubblicani Stimson e Knox agli importantissimi ministeri della guerra e della marina. Essi erano schierati in modo netto per l’aiuto agli Alleati e riuscirono quasi subito a convincere il presidente a introdurre la coscrizione anche in tempo di pace.
Nel novembre del 1940 Roosevelt vinse le elezioni in modo schiacciante ma, per ottenere questo risultato, si mantenne fedele a un preciso programma di neutralità tenendo gli Usa fuori dal conflitto. Nonostante questo, Stimson e Knox rimasero convinti che solamente un forte aumento di aiuti avrebbe potuto salvare la Gran Bretagna; in particolare bisognava fornirle tutto quello di cui necessitava senza preoccuparsi dei pagamenti e le navi da guerra avrebbero dovuto scortare i convogli con i rifornimenti.
Alla fine fu preparata la legge “Affitti e Prestiti” che, con il prestito di materiale bellico statunitense agli Alleati, avrebbe contribuito a dare filo da torcere ai tedeschi senza, nel frattempo, venir meno alle leggi sulla neutralità. Per far approvare la legge al Congresso, però, dovettero passare due mesi dato che essa incontrò la forte opposizione degli isolazionisti.
Con l’entrata in vigore della legge gli americani sequestrarono le navi tedesche e italiane presenti nei loro porti (facendole diventare, invece, mercantili per rifornire gli inglesi), portarono il limite delle acque territoriali (in cui le unità dell’Asse non potevano entrare) fino a comprendere l’intera Groenlandia ed iniziarono a occuparsi delle forniture destinate alle truppe britanniche che si trovavano sul fronte africano.
Sulla scorta ai convogli Roosevelt, però, andava molto cauto perché doveva fare i conti con buona parte dell’opinione pubblica che era contraria al fatto dell’utilizzo di navi da guerra statunitensi. Nemmeno quando fu silurato il mercantile americano “Robin Moor” Roosevelt reagì.
La politica estera di Roosevelt divenne più aggressiva nel luglio 1941 quando gli americani iniziarono i preparativi per l’occupazione dell’Islanda, consentendo così agli inglesi di spostare le loro truppe qui presenti su altri fronti. Quest’atto fece infuriare il comandante della Marina tedesca, l’ammiraglio Raeder, che chiese a Hitler l’autorizzazione ad attaccare tutte le navi da trasporto statunitensi. Il Fuhrer, però, che non voleva entrare in conflitto con gli Usa, si rifiutò.
Roosevelt organizzò anche la protezione dei convogli mercantili fino all’Islanda; Hitler ordinò alle sue navi di difendersi e di non iniziare a sparare per prime.
Intanto, in Asia, la tensione tra Stati Uniti e Giappone si faceva sempre maggiore.

Il Giappone prima del conflitto

Alla fine del primo conflitto mondiale il Giappone era diventato ormai una grande potenza economica.
Inizialmente, durante gli anni ’20, la sua espansione commerciale sui mercati asiatici avvenne in maniera pacifica.
Nel 1929, però, la crisi seguita al crollo di Wall Street ebbe catastrofiche conseguenze sull’economia nipponica; questo fece in modo che partiti ultranazionalisti, sostenuti dai militari, prendessero sempre più piede sostenendo che, per il Giappone, l’unico modo di uscire dalla crisi era legato a un’espansione territoriale in Asia. L’obiettivo era creare un “nuovo ordine” asiatico con il quale conquistare nuovi territori ricchi di materie prime e petrolio.
Il primo atto concreto del mutamento politico del Sol Levante fu l’invasione della Manciuria nel settembre 1931; entro il gennaio successivo l’occupazione fu completata e venne creato un governo fantoccio. La condanna internazionale verso il Giappone fu pressoché unanime ma, in pratica, non fu preso nessun provvedimento. Nel 1933 fu condannato, come paese aggressore, dalla Società delle Nazioni; per tutta risposta quasi subito dopo ne uscì.
Ormai erano i militari che decidevano, in modo quasi incontrastato, la politica estera nipponica. Tra di loro, però, vi erano due linee di pensiero: l’esercito sosteneva che l’espansione dovesse avvenire sul continente asiatico (e si discuteva se farlo a danno dell’Unione Sovietica o della Cina) mentre la Marina riteneva che bisognasse puntare alle aree petrolifere e minerarie del sud-est asiatico e delle isole del Pacifico sud-occidentale.
Ne uscì un compromesso con cui il Giappone avrebbe cercato di espandersi in entrambe le direzioni venendosi, così, a scontrare con gli interessi delle potenze occidentali.
Nel luglio 1937 iniziò il conflitto con la Cina; nel dicembre i nipponici conquistarono Nanchino e quasi tutta la parte settentrionale del Paese. Chiang Kai-Shek, però, continuò a combattere dato che le sue truppe erano rifornite dagli inglesi e dai sovietici. Un anno dopo anche gli americani aiutarono il governo cinese con un credito di 25 milioni di dollari e iniziarono una forte pressione sui giapponesi minacciando di interrompere i flussi di rifornimento petroliferi.
Le vittorie tedesche del 1940 su Francia e Paesi Bassi offrirono un’ottima occasione ai giapponesi per estendere il loro dominio in Asia. Questi due Stati, infatti, insieme alla Gran Bretagna le cui sorti nel conflitto sembravano volgere al peggio, avevano possedimenti coloniali in Malesia, Birmania e Indocina. Impadronendosi di questi territori, il Sol Levante si sarebbe assicurato il petrolio e nuove basi per chiudere definitivamente il conflitto con la Cina.
Il 16 luglio 1940 l’esercito fece cadere il governo del moderato ammiraglio Yonai sostituendolo con il principe Fumimaro Konoye mettendo Yosuke Matsuoka al Ministero degli Esteri.
La politica estera divenne più aggressiva; sugli olandesi venne fatta una grossa pressione diplomatica per ottenere il controllo dei loro territori coloniali mentre gli inglesi ritirarono le loro guarnigioni di Shangai e Tientsin. Al governo francese di Vichy venne chiesto di poter dislocare nell’Indocina settentrionale aerei e truppe nipponiche.
Infine, per arginare la possibile minaccia portata dagli Stati Uniti, il Giappone, il 27 settembre 1940, firmò il “Patto Tripartito” insieme a Germania e Italia; quest’accordo era diretto contro eventuali aggressioni da parte di Stati non ancora direttamente coinvolti nei conflitti europeo o cinese.
Nell’estate del 1940 i francesi stipularono l’accordo con i giapponesi per l’utilizzo del territorio dell’Indocina settentrionale come base per le operazioni militari contro la Cina.
Il 13 aprile 1941 Matsuoka firmò un patto di non aggressione con i sovietici; quest’accordo, insieme all’attacco tedesco all’Urss sferrato il 22 giugno, rafforzò la convinzione dei militari a rivolgersi verso il sud-est asiatico dato che era stato eliminato il pericolo che Stalin attaccasse il Sol Levante alle spalle. A un’offensiva verso sud erano, però, contrari sia Konoye sia l’ammiraglio Nagano, Capo di Stato Maggiore della Marina, che temevano un’eventuale reazione americana.
Alla fine fu deciso, in una conferenza alla quale era presente anche l’Imperatore, di mandare altre truppe in Manciuria e, contemporaneamente, di porre un ultimatum ai francesi contenente la richiesta di occupare alcune basi aeree, terrestri e navali nell’Indocina meridionale, basi che avrebbero messo Singapore nel raggio d’azione dei bombardieri giapponesi.
Sul fronte diplomatico, intanto, i nipponici portavano avanti le trattative con gli americani e, come gesto distensivo, sostituirono Matsuoka con l’ammiraglio Toyoda, meno aggressivo del predecessore.
Il 24 luglio, però, i francesi accettarono anche le nuove richieste giapponesi.
Ormai gli Stati Uniti si resero conto che il Sol Levante era diventata una minaccia economica e militare che minacciava i suoi interessi e contro la quale bisognava iniziare a prendere provvedimenti.
Roosevelt, stavolta, reagì congelando tutti i depositi giapponesi negli Stati Uniti e bloccando la fornitura di benzina per aerei. Dopo che anche Gran Bretagna e Olanda fecero lo stesso, il Giappone si trovò a dover affrontare un arresto totale delle forniture di petrolio (importava circa il 90% del petrolio dagli Usa).
Le scorte nipponiche, in caso di conflitto, sarebbero bastate solamente per un anno e mezzo e anche la guerra con la Cina non sarebbe finita prima dell’esaurimento delle riserve.
Il Sol Levante, ormai, non aveva più scelta: se voleva assicurarsi il dominio del sud-est asiatico, avrebbe dovuto impadronirsi con la forza dei giacimenti del settore meridionale. Questo avrebbe significato anche conquistare i possedimenti inglesi e americani che si trovavano lungo le linee di rifornimento come Sumatra, Giava, il Borneo e le Filippine.
L’operazione doveva essere organizzata prima della fine del 1941 perché l’anno dopo le scorte di petrolio sarebbero scese a un livello troppo basso; bisognava anche impiegare quasi tutte le risorse della Marina e dell’Aviazione, oltre a quindici divisioni dell’esercito.
Ormai era chiaro che i militari giapponesi miravano al conflitto con gli Usa; per cercare di evitarlo, invece, il 28 agosto 1941 Konoye chiese di incontrarsi con Roosevelt per cercare di trovare un accordo per via diplomatica. Cordell Hull, Segretario di Stato americano, consigliò, però, a Roosevelt di rifiutare l’incontro poiché Konoye era considerato troppo debole per far rispettare in patria un eventuale accordo.
Quest’ultimo sapeva anche che qualsiasi trattativa con gli Usa sarebbe stata inutile se i nipponici non fossero stati disposti a far cessare le ostilità con la Cina; a questo si opponeva decisamente il ministro della guerra, il generale Hideki Tojo, il quale sosteneva che la firma della pace avrebbe avuto un duro colpo sul morale dell’esercito e incoraggiato gli americani a chiedere altre concessioni.
Il 14 ottobre Konoye chiese per l’ennesima volta a Tojo di approvare una ritirata dalla Cina ma quest’ultimo fu irremovibile; il sedici il primo ministro si dimise e, il giorno dopo, fu sostituito proprio da Tojo.

L'invasione di Creta (Operazione “Merkur”)

Per i tedeschi la vittoria nella Campagna di Grecia non significava avere il controllo anche del Mediterraneo; per raggiungere quest’obiettivo venne elaborato un piano per invadere la strategica isola di Creta. Da essa e dai suoi campi di aviazione, infatti, gli inglesi potevano minacciare i giacimenti petroliferi della Romania tanto importanti per i tedeschi; inoltre, il possesso nazista dell’isola avrebbe minacciato il traffico marittimo britannico attraverso il Mediterraneo e verso il porto di Alessandria.
Il piano d’invasione prese il nome di “Operazione Mercurio” e prevedeva l’occupazione dell’isola tramite il lancio di truppe aviotrasportate; all’operazione furono distaccati l’intero XI Corpo Aereo (composto dai 22.000 uomini della 7° Divisione al comando di Kurt Student) e la 5° Divisione da montagna sotto la guida di Julius Ringel. Quest’ultima doveva essere trasportata con un convoglio di varie imbarcazioni che avrebbero portato a terra anche l’armamento pesante.
Le forze alleate a Creta, dal 30 aprile sotto il comando del maggior generale neozelandese Bernard Freyberg, schieravano 43.000 uomini di cui 9.000 britannici, 9.000 greci e 25.000 tra australiani e neozelandesi.
Il piano prevedeva di assumere il controllo degli aeroporti di Maleme e La Canea (vicino al porto di Suda) per poter far arrivare gli Junkers 52 contenenti le truppe destinate alla conquista di Retimo e di Candia.

LA BATTAGLIA

Il 20 maggio 1941, dopo un intenso bombardamento sulle coste settentrionali effettuato dalla Luftwaffe, la prima ondata di paracadutisti decollò dai campi di aviazione greci; essi, però, si trovarono bersaglio delle forze alleate e molti caddero già nella fase di discesa.
Il primo tentativo di conquistare l’aeroporto di Maleme fallì; dopo una discussione al comando tedesco di Atene sul fatto di continuare l’operazione oppure sospenderla, alla fine Student decise di proseguire con gli assalti. Dopo sette ore di aspri combattimenti in cui i soldati neozelandesi opposero un’accanita resistenza, la mattina del 21 maggio l’aeroporto era in mano tedesca e gli Junkers 52 poterono far giungere i rinforzi con buona continuità.
Se a Maleme gli invasori riuscirono nel loro intento, negli altri settori incontrarono, invece, grosse difficoltà; le truppe destinate ad assumere il controllo di Canea e della Baia di Suda subirono forti perdite e identica sorte toccò anche ai paracadutisti che avevano, come obiettivo, Retimo. In quest’ultimo settore, però, il 26 maggio i tedeschi conquistarono quota 296, una collina che dominava l’aeroporto e che rese più facile entrarne in possesso.
Nel frattempo Freyberg, costatato che ormai i nazisti avevano occupato molti punti strategici e che era sempre più difficile ricevere rinforzi e rifornimenti, diede l’ordine ai suoi uomini di ritirarsi su Sfakia, dove sarebbero stati evacuati via mare.
Il primo giugno il Ministero della Guerra britannico comunicò la perdita di Creta e la Royal Navy riuscì a portare in salvo, in Egitto, 16.500 uomini mentre, tra morti, feriti e prigionieri, ne rimasero sull’isola 23.000.
Le perdite tedesche ammontarono a 6.000 uomini. Hitler fu molto impressionato dal numero di vittime riportato dalle truppe aviotrasportate; da allora i paracadutisti non compirono più assalti dal cielo ma vennero utilizzati come reparti di fanteria dando prova di notevole qualità. Fu anche per questo motivo che decise di sospendere i piani d’invasione di Malta, il cui possesso avrebbe significato, per l’Asse, il dominio del Mediterraneo e, molto probabilmente, la conquista dell’Egitto e del Canale di Suez, cambiando così radicalmente le sorti della guerra.

La campagna di Grecia (1941-1942)

All’inizio del 1941 i greci erano ormai all’offensiva e attaccavano in direzione di Klisura (che fu evacuata dagli italiani), di Berat e di Valona; i combattimenti erano aspri e gli italiani non erano in grado di lanciare una controffensiva nonostante Mussolini ne facesse continua richiesta a Cavallero.
Per rimediare al fallimento italiano e venire in soccorso del suo alleato Hitler iniziò a organizzare “l’operazione Marita” per l’invasione e l’occupazione della Grecia; venuto a conoscenza della possibile invasione tedesca, Metaxas, che ormai era gravemente malato, cercò di avere aiuti da parte degli inglesi ma Wavell poté inviare solo un reggimento di artiglieria, uno contraereo e una sessantina di carri armati.
Metaxas morì il 29 gennaio. Gli successe Alexandros Koritzis, governatore della Banca Ellenica, che rinnovò subito agli inglesi la richiesta di maggiori rinforzi. Churchill temeva che i greci, se non aiutati con mezzi e truppe, potessero in qualche modo accordarsi coi tedeschi e inoltre riteneva che, con la conquista della penisola balcanica da parte di Hitler, la Turchia sarebbe potuta entrare nel conflitto a fianco dell’Asse; ordinò quindi a Wavell di inviare subito sul fronte greco tutte le forze non strettamente indispensabili in Cirenaica.
Il 23 febbraio Koritzis accettò ufficialmente l’aiuto della Gran Bretagna consistente in circa 100.000 uomini (anche se alla fine ne sbarcarono non più di 57.000), 240 pezzi di artiglieria, quasi 200 cannoni antiaerei e 142 carri armati; queste forze furono assegnate al comando del generale Henry Maitland Wilson che arrivò ad Atene il 28.
Il 9 marzo Cavallero, alla presenza di Mussolini nel frattempo giunto in Albania, lanciò un attacco nel settore tra Tomor e il fiume Voiussa ma, dopo quattro giorni di combattimento che causarono dodicimila morti, gli italiani non riuscirono nemmeno a fare una piccola avanzata! Vi era stata, infatti, una scarsa preparazione di artiglieria mediante pezzi tutti di piccolo calibro, un insufficiente addestramento dei rincalzi e l'assenza di un efficace appoggio aereo.

La Germania si prepara all’invasione della Grecia

La decisione italiana di attaccare la Grecia non piacque affatto a Hitler che, in cuor suo, sperava di conquistare la penisola balcanica con manovre politiche; con la sua offensiva Mussolini, invece, aveva, in pratica, offerto agli inglesi la possibilità di mandare truppe e aerei nei Balcani e di minacciare, quindi, i preziosi pozzi petroliferi romeni. Inoltre Hitler non voleva che i Balcani costituissero una “spina nel fianco” per il suo attacco all’Unione Sovietica che, ormai, era stato fissato definitivamente per la metà del 1941.
La pressione diplomatica che il Fuhrer esercitò su Ungheria, Romania e Bulgaria fece si che questi Stati divenissero in pratica satelliti della Germania.
Il 13 gennaio 1941 Re Boris di Bulgaria venne invitato da Hitler in Germania per tre motivi: aderire al Patto Tripartito, consentire alle truppe tedesche il transito sul proprio territorio in vista dell’attacco alla Grecia e schierarsi militarmente a tutti gli effetti accanto alle potenze dell’Asse; dieci giorni dopo il capo di Stato Maggiore dell’esercito bulgaro preparò un piano di collaborazione e cooperazione con i nazisti.
L’adesione bulgara al Patto venne siglata il primo marzo a Vienna; il giorno dopo le truppe tedesche destinate all’invasione greca incominciarono a passare sul suo territorio per posizionarsi proprio sul confine con lo Stato ellenico. La Gran Bretagna ruppe le relazioni diplomatiche con Sofia.

Il colpo di stato in Jugoslavia

Il 14 febbraio toccò al presidente del consiglio jugoslavo Dragisa Cvetkovic ricevere dal Fuhrer la richiesta di entrare nel Patto Tripartito; venti giorni dopo rinnovò la richiesta al principe Paolo, reggente di Jugoslavia, con la promessa che, in cambio del libero transito dei suoi soldati attraverso il suo territorio, la Jugoslavia si sarebbe annessa il porto di Salonicco e una parte della Macedonia.
Nel Paese, però, ci furono molte dimostrazioni antitedesche e anti italiane che coinvolsero contadini, esercito e Chiesa. Irritato, Hitler il 19 marzo lanciò un ultimatum concedendo solo 5 giorni di tempo per aderire al Patto; il 25 il ministro degli esteri Markovic e Cvetkovic firmarono il trattato di adesione nonostante gli ammonimenti ricevuti dal governo britannico.
Al ritorno in patria, però, i due vennero arrestati in seguito a un colpo di stato messo in atto da un gruppo di ufficiali dell’aeronautica capeggiati dal capo di Stato Maggiore Dusan Simovic; questi rovesciò il governo, costrinse all’esilio il principe Paolo e formò un esecutivo di unità nazionale che stipulò quasi subito un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica.
Il Fuhrer decise di invadere militarmente la Jugoslavia in quanto la considerava ormai uno Stato nemico ed il 30 marzo approvò, fin nei dettagli, il piano di attacco chiamato “operazione Marita”. Anche l’Ungheria, che già si trovava nell’orbita tedesca, decise di partecipare al’invasione insieme alla Germania.

L’attacco tedesco alla Jugoslavia

Il 6 aprile 1941, alle ore 5.15, la Germania diede il via all’operazione "Marita" invadendo la Jugoslavia e dichiarando guerra alla Grecia; le sue forze, al comando del generale List, consistevano in sei divisioni di fanteria, tre motorizzate e due corazzate (con 200 carri armati); inoltre erano presenti il XLI corpo motorizzato e il 1° Panzergruppe mentre la Luftwaffe schierava quasi 800 aerei tra bombardieri, caccia e ricognitori.
Venne subito effettuato un pesantissimo bombardamento su Belgrado (operazione “Castigo”) e su tutti i campi d’aviazione.
La 2° armata tedesca, agli ordini di von Weichs, partendo dall’Austria e dall’Ungheria, puntò direttamente sulla capitale mentre la 12° armata di List attaccò verso Strumica; infine, il gruppo corazzato di von Kleist, avanzando dalla Bulgaria, si diresse sia a nord verso Nis sia a sud verso Skopje per tagliare i collegamenti tra le truppe jugoslave e quelle greche.
Il giorno successivo i nazisti occuparono Skopje e si diressero verso Monastir mentre, nel nord, puntarono verso Zagabria; intanto anche l’Italia aveva dichiarato guerra alla Jugoslavia e le sue truppe superarono la frontiera giuliana.
L’esercito jugoslavo poté fare ben poco contro la netta superiorità tedesca; il 10 aprile cadde Zagabria, il 12 la capitale Belgrado e il 16 Sarajevo. Nel frattempo gli italiani avanzavano sia verso Lubiana sia verso Spalato e Ragusa (l’attuale Dubrovnik) mentre gli ungheresi si diresse verso Novi Sad.
Il 17 aprile le ultime sacche di resistenza si arresero. L’atto di resa fu firmato a Belgrado alla presenza di Markovic per la Jugoslavia, von Weichs per la Germania e Bonfatti per l’Italia. Furono fatti prigionieri circa 334.000 uomini.
Il governo jugoslavo riparò, in esilio, prima in Grecia e poi a Londra. La Croazia si proclamò indipendente e venne messo a capo dello Stato Ante Pavelic, leader del movimento separatista locale e, in pratica, fantoccio di Mussolini.

L’attacco tedesco alla Grecia

A fronteggiare le forze di Hitler vi erano 4 divisioni greche e, una cinquantina di chilometri più indietro, il corpo di spedizione britannico di Wilson. Altre 3 divisioni greche erano schierate lungo la “linea Metaxas”, una catena di fortificazioni di circa 160 km che andava dai monti Belastica fino alla foce del fiume Nestos.
Il XVIII corpo d'armata doveva sfondare la linea Metaxas al centro e il XXX corpo d'armata doveva avanzare nella Tracia occidentale; queste due offensive avrebbero tagliato fuori l'armata greca situata nella Macedonia orientale.
Il 6 aprile 1941 il XXX corpo d'armata tedesco penetrò nella pianura di Komotini, nella Tracia orientale. Qui i greci erano inferiori di numero e male equipaggiati e non opposero grossa resistenza; Soltanto i due forti di Nymféa e di Echinos riuscirono a tenere testa per l'intera giornata.
Due colonne tedesche si diressero verso Xánthi mentre una terza si spinse verso Alessandropoli, sulla costa.
Il XVIII corpo d'armata tedesco, invece, sferrò tre attacchi contro tre punti diversi del settore centrale della linea Metaxas mentre la 72ª divisione di fanteria (con l'appoggio di carri armati, artiglieria e degli Stuka) avanzò da Nevrokop dirigendosi verso sud per attaccare la linea stessa a nord di Serre.
Mentre la Luftwaffe continuava a martellare i depositi militari nelle retrovie della linea difensiva greca danneggiando comunicazioni e impianti ferroviari, la 2ª divisione corazzata tedesca, la sera del 7 aprile, entrò a Dojran, all’estremità sinistra della linea difensiva greca.
L'aggiramento della linea Metaxas fu completato l'8 aprile dal XVIII corpo d'armata e causò la capitolazione dell'armata greca nella Macedonia orientale; il giorno dopo il grosso della colonna di carri armati tedeschi entrò a Salonicco. Settantamila uomini furono fatti prigionieri.
I tedeschi, con 15 divisioni, continuarono a premere sulle truppe greche e britanniche e, in una riunione con i comandanti britannici e con gli ufficiali dello stato maggiore ellenico, Wilson decise di ritirarsi; infatti, tenendo conto che la Luftwaffe in cielo era incontrastata, solamente il continuo arretramento poteva salvare il corpo di spedizione britannico dall'annientamento totale. Durante i giorni dal 14 al 25 aprile, la prima brigata corazzata non fece altro che ripiegare.
Nel frattempo anche gli italiani, il giorno 14, passarono all’offensiva e il loro attacco permise di riconquistare Corcia, Permeti, Argirocastro e Porto Palermo mentre alcune divisioni avanzarono nell’Epiro. Il 24 la nona armata di Mussolini arrivò al ponte di Perati congiungendosi con le truppe tedesche.
Il 18 aprile i nazisti oltrepassarono il monte Olimpo e presero la città di Larissa mentre, nel frattempo, il XL corpo d’armata entrò a Florina e Trikkala; in questo modo riuscirono a incunearsi tra i soldati greci a ovest e il corpo di spedizione britannico a est. Sbarrarono anche la ritirata alle truppe elleniche che arretravano davanti all’attacco italiano in Epiro.
Per i greci ormai la lotta era finita mentre i britannici cercavano di raggiungere il più velocemente possibile i punti prefissati per il reimbarco lasciando le retroguardie ad opporre un’ultima resistenza alle Termopili.

La resa della Grecia

Dopo che il comandante dell’armata greca della Macedonia occidentale aveva già avviato trattative per la resa, il giorno 19 si tenne una riunione tra il re Giorgio II, Papagos, Wavell e Wilson; in essa i greci accettarono che il corpo di spedizione britannico lasciasse la Grecia continentale.
Due giorni dopo una divisione corazzata tedesca arrivò a Giannina accerchiando completamente i greci. A Larissa venne firmata la capitolazione dell’esercito ellenico e 16 divisioni deposero le armi. Il 23 aprile, presso Salonicco, venne sancita la resa anche con gli italiani.
Il 24 il generale Papagos si dimise, l'esercito greco capitolò e il re partì per l'esilio.
La Germania occupò militarmente la Macedonia centrale e orientale con l'importante porto di Salonicco, la capitale Atene e le isole dell'Egeo Settentrionale; la Bulgaria ottenne la Tracia; l'Italia, ottenne il controllo del resto del territorio greco.
Ad Atene venne instaurato un governo militare sotto il controllo tedesco e guidato dal Generale Tsolakoglu.

L’evacuazione britannica

La resistenza alle Termopili era importante per i greci e i britannici; infatti essi dovevano mantenere il controllo su tutto il Peloponneso per poter evacuare il grosso delle loro truppe.
L'inizio delle operazioni di reimbarco fu programmato per la sera del 24 aprile; era quindi fondamentale fermare l’avanzata tedesca il più a lungo possibile fino al 23, quando i soldati destinati a imbarcarsi il giorno successivo avrebbero dovuto cominciare a dirigersi verso la costa.
L’attacco delle truppe di Hitler, però, venne sferrato solamente il 24 perché esse, a causa della loro veloce avanzata, persero il contatto con i rifornimenti e dovettero impiegare quattro giorni per ristabilirlo; i britannici ne approfittarono cosi per rinforzare le loro difese e, la sera del 23, per mandare verso i porti di imbarco la 5ª brigata neozelandese.
Alle 7.30 del 24 l'offensiva alle Termopili iniziò con utilizzo di cannoni, carri armati, artiglieria e bombardieri in picchiata ma, la sera, i tedeschi non erano ancora riusciti ad avanzare.
Il 25 reparti di paracadutisti tedeschi della 7° divisione si lanciarono oltre il canale di Corinto che venne poi attraversato da una divisione corazzata; da qui i nazisti dilagarono per tutto il Peloponneso.
I britannici resistettero alle Termopili e in una nuova linea a sud di Tebe fino alla mattina del 26; questa resistenza fece in modo che potessero essere evacuati complessivamente più di 18.000 uomini (anche se ne rimanevano ancora più di 40.000).
Il giorno 27 le truppe italo-tedesche entrarono in Atene mentre la settimana successiva gli italiani occuparono le isole greche dello Ionio: Cefalonia, Zante ed Itaca.
Il 28, dai porti di Nauplia, Monemvasia e Kalamata, vennero evacuati 43.000 tra britannici e polacchi che si imbarcarono su 6 incrociatori, 19 cacciatorpediniere e numerose piccole navi da trasporto. Settemila soldati non fecero in tempo a salire sulle navi e furono fatti prigionieri.
La campagna di Grecia era conclusa ma restava in mano inglese l'isola di Creta che le truppe di Hitler conquistarono poi con un’operazione condotta da reparti di paracadutisti.

Conclusioni

Per la seconda volta dopo Dunkerque l'esercito britannico dovette lasciare il continente europeo; nonostante l’80 per cento dei suoi effettivi fosse stato salvato, subì comunque grandissime perdite: 12.000 uomini, circa 200 velivoli, 400 cannoni, 1.800 mitragliatrici, 8.000 veicoli e 27 navi affondate.
La campagna di Grecia, però, influenzò l’opinione pubblica statunitense che condannò l’invasione tedesca e contribuì a far approvare al Congresso la legge “affitti e prestiti” con la quale venne dato inizio alle fondamentali forniture di materiale bellico americano.
Anche il bilancio italiano fu terribile; si ebbero 13.755 morti, 50.784 feriti, 12.638 congelati, 25.067 dispersi e 52.108 invalidi. Inoltre si mise in evidenza tutta la debolezza della potenza militare del Duce perché nessuno poteva prevedere che non sarebbe riuscito ad avere la meglio sulla piccola Grecia.
L’aspirazione di Mussolini di poter condurre in piena autonomia da Hitler la cosiddetta "guerra parallela" era definitivamente sfumata e l’Italia avrebbe, quindi, potuto proseguire la guerra solo come “satellite” della Germania.

Le battaglie sui mari (1941)

Durante il 1941 i tedeschi effettuarono continue richieste alla Marina italiana affinché attaccasse in maniera più massiccia e decisa i convogli britannici che, dai porti egiziani e della Cirenaica, portavano di materiali e truppe alle forze alleate dislocate in Grecia; infatti, Hitler ormai riteneva imminente un suo intervento nei Balcani per appoggiare le truppe italiane impegnate nella guerra contro lo stato ellenico.
Inoltre Supermarina voleva dimostrare al proprio alleato di essersi ripresa dall’attacco subito a Taranto e di avere ancora grosse capacità offensive.
Supermarina predispose un piano che consisteva nell’effettuare due rapide incursioni offensive (una a nord ed una a sud di Creta) in caccia del traffico inglese. Gli italiani, in caso di superiorità, avrebbero dovuto attaccare i convogli nemici e la loro scorta, dopo di che sarebbero rientrati nei loro porti.
Per attuare il piano, Supermarina scelse di schierare forze consistenti; dietro consiglio tedesco decise di far uscire la corazzata “Vittorio Veneto”, la prima divisione di incrociatori pesanti (composta dallo “Zara”, dal “Pola” e dal “Fiume”) e la terza (“Trento”, “Trieste” e “Bolzano”), l’ottava di incrociatori leggeri (“Garibaldi” e “Duca degli Abruzzi”) e un buon numero di cacciatorpediniere di scorta.
Anche la scorta aerea sarebbe stata imponente: oltre alle forze della Regia Aeronautica di base in Italia e nell’isola di Rodi, sarebbero state impiegate anche quelle tedesche (forti di circa 200 bombardieri e una settantina di caccia) di base in Sicilia.
Per la riuscita del piano era fondamentale il fattore sorpresa; se gli italiani fossero stati scoperti prima di arrivare nelle acque di Creta, gli inglesi avrebbero di sicuro spostato i loro convogli e cercato di intercettare il nemico con la "Mediterranean Fleet" di base ad Alessandria.

Lo scontro di Gaudo

La mattina del 27 marzo, a est della Sicilia, la “Vittorio Veneto” si riunì con la III Divisione ma fu avvistata da un ricognitore inglese; questi comunicò subito la sua localizzazione al proprio comando e il fattore sorpresa, quindi, venne completamente a mancare. Nonostante questo, Supermarina confermò l’operazione ordinando alle navi di riunirsi, la mattina dopo, vicino all’isolotto di Gaudo in modo da attaccare i convogli nemici a sud di Creta.
L’Ammiraglio Cunningham, una volta dirottati tutti i convogli in navigazione verso Creta, comunicò alla sua flotta di trovarsi poco più a est del punto dove dovevano radunarsi le navi italiane. L'Ammiraglio Iachino, però, al contrario del suo avversario, era all’oscuro delle mosse nemiche e, inoltre, l’aviazione italiana dell’Egeo non fece nessuna ricognizione su Alessandria o in mare per ricercare il traffico mercantile nemico.
In condizioni di mare calmo e buona visibilità, la mattina del 28 marzo, la flotta italiana giunse nelle acque di Gaudo divisa in due raggruppamenti: Vittorio Veneto e III Divisione in posizione avanzata, I e VIII Divisioni Incrociatori in posizione arretrata.
La mattina del 28 marzo Iachino fece lanciare due ricognitori per individuare convogli e navi nemiche fino a 100 miglia e questi avvistarono 4 incrociatori e i 4 cacciatorpediniere dell'ammiraglio Pridham-Wippell; quasi nello stesso momento un aereo della “Formidable” avvistò la flotta italiana.
Iachino, pensando che avesse di fronte solo la scorta di un convoglio nemico, ordinò alle sue navi di inseguire gli incrociatori nemici contando sulla maggior velocità dei suoi “classe Trieste”. Questi ultimi aprirono il fuoco alle 08.12, da circa 24.000 metri, con i cannoni da 203 mm ma senza centrare nessun bersaglio. Gli inglesi, intanto, stavano riuscendo nel loro piano di portare gli incrociatori nemici a tiro delle proprie corazzate.
Il servizio di decrittazione comunicò a Iachino che si trovava di fronte una formazione navale nemica consistente che, probabilmente, comprendeva anche una portaerei; a questo punto, anziché, come richiedeva il buon senso, annullare la missione e rientrare immediatamente alla base, Iachino fece un altro tentativo di ingaggiare gli incrociatori inglesi manovrando in modo aggirarli da est con la Vittorio Veneto e da ovest con la III Divisione.
Il Vittorio Veneto colpì gli incrociatori inglesi con pochi colpi isolati non arrecando danni; questi ultimi si ritirarono ad alta velocità coprendosi con cortine di fumo.
Cunningham, venuto a sapere dello scontro, mandò un gruppo di aerosiluranti della Formidable contro il Vittorio Veneto; lanciarono a bassa quota ma da notevole distanza e mancarono il bersaglio.
Iachino pensò che i velivoli provenissero da Creta e, temendo altri attacchi, decise di prendere la rotta nord-ovest verso Taranto.

Lo scontro di Capo Matapan

Gli inglesi conoscevano la posizione delle navi italiane e, alle 14.20 e alle 14.50, effettuarono, con bombardieri, due attacchi alla “Vittorio Veneto” ma entrambi senza esito.
Un terzo attacco, lanciato alle 15.19 da bombardieri e aerosiluranti a bassa quota, andò, invece, a segno; un siluro centrò la “Vittorio Veneto” a poppa e la corazzata imbarcò 4.000 t di acqua mandando in avaria le due eliche di sinistra. Dovette ridurre la velocità a 16 nodi e, per proteggerla da altri attacchi, venne disposta, attorno ad essa, una formazione compatta di 18 unità (su cinque colonne) con l'ordine di emettere cortine di nebbia in caso di arrivo di aerei nemici.
Alle 19.30, infatti, arrivò un attacco di dodici aerosiluranti inglesi che colpirono il “Pola” e lo fecero rimanere privo di propulsione ed energia elettrica.
A questo punto Iachino, con una decisione sorprendente e sapendo della presenza delle navi nemiche, decise di lasciare la sua I Divisione a soccorrere il “Pola”.
Quando diventò buio l'Ammiraglio Cunningham ordinò a 4 incrociatori e a 8 cacciatorpediniere di cercare un contatto notturno con le navi italiane; infatti, i britannici potevano contare sull’ausilio del radar e le loro navi, al contrario di quelle italiane, erano attrezzate per il combattimento anche di notte. Individuarono il “Pola” e, mentre gli si avvicinavano, avvistarono anche le altre navi italiane che giungevano in suo aiuto.
In soli 3 minuti i britannici colpirono lo “Zara”, il “Fiume” i cacciatorpediniere “Alfieri” e “Carducci” e danneggiarono seriamente “l’Oriani”.
Alla fine Cunningham, temendo la presenza di altri cacciatorpediniere italiani, si allontanò dal luogo del combattimento, lasciando ai caccia inglesi il compito di affondare il “Pola”.
Le navi in fiamme ma ancora galleggianti furono affondate dai cacciatorpediniere inglesi.
I morti italiani furono 2.303.
La tragedia di Capo Matapan era dovuto al livello di arretratezza in cui versava la Regia Marina al cospetto della Royal Navy; infatti, oltre al fatto di non possedere il radar, venne evidenziata la mancanza di una propria portaerei che avrebbe consentito di lanciare attacchi dall’alto e ricognizioni. Infine l’altro grosso e determinante vantaggio inglese era di possedere Ultra con il quale poteva decrittare i messaggi cifrati nemici e, quindi, conoscerne in anticipo le mosse.

La Battaglia del convoglio Tarigo

Per rifornire le truppe sul fronte africano, il 13 aprile 1941, da Napoli, partì verso Tripoli un convoglio formato da quattro trasporti truppe tedeschi (“Adana”, “Arta”, “Aegina” e “Iserlhon”) e dal mercantile “Sabaudia” carico di munizioni. La scorta era formata dal cacciatorpediniere Classe Navigatori ”Tarigo” (al comando del Capitano di fregata Pietro de Cristofaro) e dai due cacciatorpediniere classe Folgore “Baleno”e “Lampo”.
Supermarina aveva programmato il viaggio in modo da poter contare sull’appoggio dell'aviazione ed in modo da transitare vicino a Malta in orario diurno, dato che le condizioni erano più favorevoli per difendersi da attacchi navali o aerei.
Una volta superate le Isole Egadi, il convoglio incontrò un forte che ne rese impossibile il procedere in formazione disperdendo le varie navi e rallentandone la velocità sui tempi previsti; inoltre, i ricognitori aerei non ebbero possibilità di levarsi in volo, al contrario di quelli inglesi che individuarono la formazione italiana la mattina del 15 aprile.
Gli italiani, quindi, non si accorsero che da Malta erano intanto usciti quattro cacciatorpediniere sotto il comando del Capitano P. J. Mack; questi ultimi, dato che potevano contare sul radar, individuarono subito il convoglio nemico.
Alle 02:20del mattino del 16 aprile le navi inglesi aprirono il fuoco da soli 2.000 metri di distanza; il “Lampo” ed il “Baleno” furono subito colpiti e messi fuori combattimento, il “Sabaudia” affondò subito dopo insieme agli altri mercantili. Ne uscì quasi indenne solamente l’Arta ma venne poi affondato dal sommergibile Upholder il 26 aprile.
Il “Tarigo” reagì agli attacchi delle navi inglesi ma fu presto colpito ed avvolto dalle fiamme che causarono molte vittime tra l’equipaggio; De Cristofaro, ferito anch’esso, però continuò a dirigere le operazioni sulla propria barca e i suoi siluristi riuscirono ad affondare il “Mohawk”.
Le altre navi britanniche si allontanarono, poi, rapidamente dal luogo della battaglia.
Il comando marittimo italiano in Libia la spedizione di soccorso che vide coinvolti 4 cacciatorpediniere, 5 torpediniere, 2 piroscafi la nave soccorso-aerei “Orlando” e la nave ospedale “Arno”; dei 3.000 uomini totali imbarcati ne vennero recuperato solo 1.271.
Morì anche De Cristofaro che, in seguito, ricevette, alla memoria, la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

La Battaglia di Capo Bon

Allargo di Capo Bon, in Tunisia, la notte fra il 12 e 13 dicembre del 1941 avvenne uno scontro tra due incrociatori leggeri italiani (scortati dalla torpediniera “Cigno”) e una flotta di cacciatorpediniere inglesi.
Data la quantità elevata di naviglio mercantile (destinata al fronte nordafricano) persa nel 1942 e vista la necessità di rifornire i contingenti dell’Asse con grossi quantitativi di rifornimenti di benzina per aerei, nafta, viveri e munizioni, Supermarina decise che l’inviare veloci incrociatori leggeri stipati di rifornimenti avrebbe risolto il problema.
Le due unità prescelte furono l’incrociatore “Alberto da Giussano” e il “Alberico da Barbiano”, al comando dell'ammiraglio di divisione Antonino Toscano.
I due incrociatori italiani salparono da Taranto la mattina del 5 dicembre e, alle 17:00 dello stesso giorno, arrivarono a Brindisi per imbarcare il materiale da inviare in Libia. Tra questo materiale vi erano molti fusti non stagni che contenevano benzina per aerei dell'Asse.
Il materiale caricato a bordo era talmente tanto che le navi ne risultarono notevolmente appesantite dall'insolito carico, ed rendendo addirittura problematica la vita del personale di bordo dati gli spazi strettissimi. Squadre antincendio aggiuntive, dotate di tute di amianto furono imbarcate per l'occasione, ma le navi sembrarono ai più come dei barili di esplosivo galleggiante.
I due incrociatori partirono per Palermo subito dopo aver completato le operazioni di carico e vi arrivarono la mattina del 7. A questo punto doveva unirsi alla missione anche il “Bande Nere” giunto appositamente da La Spezia; per problemi all’apparato motore, però, dovette rinunciare e il suo carico dovette rimanere imbarcato sugli altri due incrociatori. Al suo posto venne mandata la torpediniera “Cigno”.
Il “Da Barbiano” e il “Di Giussano” lasciarono Palermo diretti a Tripoli, il giorno 11; dopo essere stati localizzati da due aerei inglesi, però, i due incrociatori rientrarono in porto; ripartirono il giorno seguente dopo aver caricato nuovi bidoni di carburante.
Grazie alle intercettazioni di Ultra, gli inglesi fecero partire da Gibilterra 4 cacciatorpediniere (“Sikh”, “Maori”, “Legion” e l’olandese “Isaac Sweers”); vennero scoperti da un aereo italiano, il quale informò subito Supermarina che, incredibilmente, non prese nessuna contromisura affermando le navi italiane sarebbero transitate nel probabile punto d'intercettazione (il promontorio tunisino di capo Bon) qualche ora prima di quelle inglesi.
Alle 3.15 del 14 dicembre, avvalendosi dell’aiuto del radar e completamente di nascosto, gli inglesi si misero in posizione di lancio e lanciarono dieci siluri a cui rispose il “Cigno” ma senza nessun risultato.
Alle 3:20 il “Barbiano” venne centrato da diverse cannonate in coperta e in plancia; prese subito fuoco e lo scoppio dei fusti di benzina che si trovavano a bordo fecero sì che le fiammate furono talmente alte che si videro anche da grande distanza; alle 3:35 affondò portando con sé tutto lo Stato Maggiore dell'unità e una buona parte dei loro uomini.
Alle 3.24 il “Giussano” venne colpito da due siluri lanciati dal “Legion” che tranciarono delle grosse tubazioni che portavano vapore alla motrice di prora ustionando numerosi uomini dell’equipaggio. Altri colpi caddero vicino ai depositi di munizioni per i cannoni e numerosi incendi scoppiarono in ogni parte della nave. Per questo il comandante Marabotto dette l’ordine di abbandonare e gran parte dell’equipaggio si tuffò in mare e prese posto negli zatterini di salvataggio; una volta in mare vennero mitragliati da aerei inglesi che causarono numerose vittime. Alle 4:30 il “Giussano” si spezzò in due tronconi e affondò a sud-est di capo Bon.
Molti naufraghi sopravvissuti furono presi a bordo dalla torpediniera “Cigno”, che si era temporaneamente allontanata durante per evitare i mitragliamenti aerei. La torpediniera rientrò a Trapani il pomeriggio del 13 dicembre con 645 persone superstiti. I dispersi in mare, invece, risultarono più di 800.

La prima Battaglia della Sirte

La Prima battaglia della Sirte avvenne il 17 dicembre 1941 nel mar Mediterraneo a nord del Golfo della Sirte e a occidente di Malta.
Lo scontro fu causato dall’incrocio tra due convogli di rifornimento, uno britannico che procedeva da est verso ovest, e uno italiano diretto da nord verso sud.
Il convoglio britannico era costituito dal mercantile britannico “Breconshire” che, il 15 dicembre, partì da Alessandria d'Egitto per trasportare combustibile alle unità che si trovavano a Malta; la sua scorta consisteva negli incrociatori “Naiad”, “Euryalus” e “Carlisle” e in otto cacciatorpediniere.
Il giorno 16, da Napoli, partì verso Tripoli un convoglio italiano fortemente scortato da una grande forza italiana.
Verso sera le navi italiane aprirono il fuoco da una distanza di 32 km ma gli inglesi fecero allontanare il Breconshire verso sud scortato da due cacciatorpediniere, mentre, con il resto delle navi, alzarono cortine fumogene per confondere gli avversari. Nella notte il contratto tra le flotte venne perso e il mercantile britannico riuscì a raggiungere Malta senza danni, usufruendo anche della scorta della Forza K. A destinazione giunse anche il convoglio italiano.
Quest’ultima si mise poi alla ricerca del convoglio italiano, ma, al largo di Tripoli, entrò in un campo minato dove affondarono la “Neptune” e la “Kandahar”; anche “'Aurora” e la “Penelope” subirono gravi danni.
Anche il convoglio italiano riesce a sua volta a giungere a destinazione indenne.

La guerra in Africa Settentrionale (1941)

Il 5 gennaio 1941 si arrese la piazzaforte italiana di Bardia; vennero catturati dai britannici 40.000 uomini, più di 460 pezzi di artiglieria, 129 carri armati leggeri e 700 automezzi.
Dopo la caduta di Bardia, l’obiettivo di O’Connor divenne la conquista di Tobruch. A questo scopo disponeva della 7ª divisione corazzata, di tre brigate della 6ª divisione australiana di Mackay, di due battaglioni mitraglieri, del 7° reggimento carri e di una notevole quantità di artiglieria.
L’attacco venne sferrato alle ore 8 del 21 gennaio 1941; dopo una giornata di intensi combattimenti, al tramonto le forze inglesi e del Commonwealth avevano conquistato circa metà della zona difesa dagli italiani. All’alba del giorno seguente le truppe attaccanti avanzarono senza incontrare resistenze e scoprirono che a Tobruch vi erano più soldati nemici di quanto si fosse creduto (circa 30.000 uomini) più numerosi automezzi, cannoni e un grande deposito di carburanti.
Le perdite di O’Connor furono di poco superiore ai 400 uomini, mentre, dopo questa disfatta, a Graziani erano ormai rimaste solamente la divisione " Sabratha " (meno una brigata di fanteria), una brigata corazzata di circa 160 carri e una brigata di fanteria della 60ª divisione (quest’ultima al comando del generale Babini).
Dopo la conquista di Tobruch i capi di stato maggiore riferirono a Wavell che sarebbe stata di grande importanza la presa di Bengasi; per questo motivo O'Connor ordinò alla 7ª brigata corazzata di avanzare verso Derna e alla 4ª brigata australiana di dirigersi verso El Mechili. Gli inglesi intravidero subito la possibilità di una decisa e veloce avanzata; il 24 gennaio proprio a El Mechili i carri armati britannici ebbero la meglio su quelli avversari e il 30 gli australiani occuparono Derna.
In una riunione svoltasi la sera del 31 gennaio un generale di Brigata, inviato da Wavell per studiare la situazione del nemico, riferì allo Stato Maggiore inglese che gli italiani si stavano preparando ad abbandonare addirittura l'intera Cirenaica. Era quindi fondamentale inseguirli con la massima velocità e O’Connor decise di far avanzare la 7ª divisione corazzata verso Msus fino a quando avesse avuto sufficiente carburante per muoversi; contemporaneamente gli australiani si mossero lungo la strada principale per Barce e Bengasi e la RAF colpiva gli italiani in ritirata.
L'inseguimento continuò per tutte le giornate del 4 e del 5 febbraio dopo le quali le forze britanniche erano penetrate profondamente nella Cirenaica meridionale; la 4ª brigata corazzata si stava ormai avvicinando a Beda Fomm dove ottenne la resa di 5.000 italiani (comprendenti soprattutto artiglieri con i loro pezzi).
Ormai l’accerchiamento era completo e i britannici riuscirono a immobilizzare una gran quantità di veicoli e truppe nemiche; gli italiani provarono a ritirarsi il più velocemente possibile ma sbatterono contro i mezzi corazzati inglesi.
Una volta resosi contro di essere circondati, dopo che anche Bengasi si arrese il 6 febbraio, gli italiani si arresero senza condizioni. Anche il generale Rodolfo Graziani, comandante di tutte le forze armate italiane in Africa settentrionale, chiese di esser rimosso dall’incarico; 4 giorni dopo fu nominato suo successore il generale Italo Gariboldi.
Il 9 i britannici raggiunsero El-Agheila, al confine tra Cirenaica e Tripolitania.
In due mesi di combattimenti le truppe inglesi, indiane e australiane erano avanzate di 800 chilometri ed avevano distrutto dieci divisioni italiane catturando circa 130.000 prigionieri, 850 cannoni, 400 carri e migliaia di autocarri. Le loro perdite furono, invece, inferiori a 2.000 uomini.
O'Connor voleva sfruttare il successo avanzando fino a Tripoli ma avrebbe avuto bisogno di riorganizzare prima tutta la linea di rifornimenti e rendere nuovamente operativi i suoi automezzi dato che erano logori dopo la travolgente offensiva. La sera dell'8 febbraio, comunque, alcune pattuglie dell'undicesimo reggimento Ussari si spinsero per una settantina di chilometri lungo la costa della Sirte e non incontrarono resistenza. O'Connor chiese l'autorizzazione ad avanzare ancora ma Wavell, su insistenza del Gabinetto di guerra, non gliela concesse e gli ordinò di rientrare al Cairo per assumere la carica di comandante in capo delle truppe britanniche in Egitto.
Infatti, il problema principale per Wavell era diventata la spedizione di soccorso alla Grecia per aiutarla in vista della prossima invasione tedesca; solo poche truppe vennero lasciate a difendere il territorio conquistato mentre anche alcune squadriglie della RAF vennero mandate a dar man forte sul fronte ellenico.

ARRIVA L’AFRIKA KORPS

Il 5 febbraio 1941, durante la battaglia di Beda Fomm, Hitler scrisse a Mussolini per riferirgli quanto disapprovasse la condotta italiana nei combattimenti in Africa Settentrionale; gli offrì l'aiuto di una divisione corazzata, a patto però che gli italiani tenessero il fronte e non arretrassero fino a Tripoli. Mussolini accettò e, il giorno 11, arrivò a Roma il comandante del corpo di spedizione tedesco, il generale Erwin Rommel, per avere l'assicurazione che la prima linea di difesa in Tripolitania sarebbe stata sulla Sirte.
Il 12 febbraio 1941 Rommel giunse in volo a Tripoli. All’inizio ebbe disponibili solo una parte delle forze che, alla fine, costituiranno il Deutsche Afrika Korps (DAK); infatti, la 15ª Panzerdivision sarebbe arrivata soltanto alla fine di maggio, la 5ª divisione leggera (rinominata in seguito 21ª Panzerdivision) incominciò a sbarcare in Africa il 14 febbraio e non sarebbe stata completa fino alla metà di aprile ed infine il 5° reggimento corazzato (dotato di 105 carri armati medi e 51 leggeri) sarebbe giunto sul posto solamente l'11 marzo. La Luftwaffe forniva l'appoggio alle truppe di terra con 20 bombardieri medi e 50 bombardieri in picchiata.
Già il 24 febbraio i primi carri armati di Rommel si scontrarono con gli inglesi nella zona di El Nofilia, a circa 120 km a est di Sirte. Da queste prime scaramucce Rommel si rese conto che i britannici non avevano intenzione di riprendere l’avanzata su Tripoli. La conquista della capitale libica, in realtà, sarebbe stata l’intenzione di O’Connor ma Wavell respinse la sua proposta; i britannici, impegnati anche in Africa Orientale e nei preparativi per la spedizione di soccorso in Grecia, ormai consideravano il fronte cirenaico solo da un punto difensivo per mantenere l’Egitto ed infatti, in questo settore, vennero tolte tutte le truppe e i mezzi non più indispensabili. Per due mesi Wavell non poteva più inviare rinforzi ma confidava anche che Rommel per un certo periodo non fosse in grado di attaccare dato che il grosso delle sue truppe doveva ancora sbarcare in Africa.
Il 19 marzo Rommel si recò in volo a Berlino per ottenere il consenso di intraprendere un’offensiva mirante a riconquistare la Cirenaica ma Brauchitsch gli rispose non avrebbero inviato ulteriori rinforzi in aggiunta alle unità già assegnate al settore africano. L’unico “contentino” che Rommel ricevette fu il permesso di attaccare El Agheila quando, alla fine di maggio, sarebbe arrivata la 15ª Panzerdivision.
Il 24 marzo le sue truppe occuparono El Agheila e, una settimana dopo, sferrarono un attacco contro la posizione di Marsa el Brega. La fascia compresa tra la costa e le paludi salmastre era profonda 13 km ed era difesa da un reggimento di artiglieria, cannoni controcarro e carri armati della 2ª divisione corazzata inglese. Dopo una giornata di combattimenti Rommel riuscì a conquistare Marsa El Brega e capì che poteva sfruttare la sua maggiore capacità di movimento per intraprendere un’efficace offensiva.
Dopo che il 2 aprile prese Agedabia, due giorni dopo Rommel decise di proseguire il suo attacco su tre direttrici: la prima era verso nord lungo la strada per Bengasi, la seconda verso nord-est in direzione Msus ed El Mechili e la terza verso est in direzione di Ben-Gama e Tengender. Gli inglesi avevano lasciato in quella zona solo un sottile velo di truppe al comando del generale Philip Neame il quale, in caso di massiccio attacco nemico, aveva l’ordine di ritirarsi fino all’afflusso di nuovi rinforzi. Così fece e le truppe italo-tedesche incontrarono, quindi, pochissima resistenza; lo stesso 4 aprile un battaglione tedesco entrò in Bengasi trovando la maggior parte dei depositi inglesi in fiamme mentre, il giorno 6, una colonna raggiungeva El Mechili. Gli inglesi e gli australiani dovettero ritirarsi oltre Derna per evitare un possibile accerchiamento. In questa ritirata vennero catturato anche i generali O’Connor e Neame mentre si trovavano in automobile tra Maraua e Ain el Tmimi.
Il 6 aprile si incontrarono al Cairo Cunningham, Wavell e Longmore per discutere di un telegramma arrivato da Londra in cui veniva riassegnata la “precedenza” al fronte nordafricano e, quindi, tutti i rifornimenti destinati alla Grecia o all’Africa Orientale dovevano essere mandati in Cirenaica. Decisero anche che doveva essere mantenuto il porto di Tobruch perché, se fosse caduto in mani nemiche, avrebbe contribuito a risolvere i problemi logistici e di rifornimenti di Rommel.
Venne rinforzata, quindi, la guarnigione di Tobruch e vennero praticamente raddoppiare le opere difensive. Gli impianti portuali erano protetti da gran quantità di cannoni contraerei pesanti e leggeri. Vennero aumentati anche gli aerei, sia caccia che bombardieri.
Rommel sapeva che gli inglesi cominciavano a rinforzare Tobruch e decise che non doveva dare loro tregua. I primi attacchi furono condotti più improvvisando anziché seguire piani ben precisi; nonostante le perdite subite, alla fine Tobruch venne completamente accerchiata mentre truppe tedesche entravano anche a Bardia.
L'assalto a Tobruch del 14 aprile fu preparato meglio e fu condotto con l’impiego di carri armati che avanzavano insieme con la fanteria e sostenuto dal fuoco di tutti i cannoni. Nonostante questo, i tedeschi finirono in mezzo a violenti contrattacchi e i Panzer si trovarono in difficoltà. Alla fine, verso mezzogiorno, Rommel fu costretto ad ammettere il fallimento del suo attacco.
Ormai la sua offensiva era al termine dato che, per quindici giorni, non riuscì a organizzare altri attacchi contro Tobruch; decise di ripetere l’offensiva solamente quando sarebbe stata disponibile la 15° divisione corazzata.
Il 25 aprile 1941 gli inglesi si trovarono ricacciati, dopo un attacco tedesco sul passo di Halfaya, sulla linea Buq Buq-Bir Sofafi.

OPERAZIONE BREVITY (15 MAGGIO – 27 MAGGIO 1941)

L’operazione “Brevity”, che gli Inglesi iniziarono a metà maggio del 1941, aveva l’obiettivo di riconquistare le posizioni a Passo Halfaya, Sollum e Forte Capuzzo.
Le forze che Wavell destinò all’offensiva (al comando del generale Noel Beresford Peirse) erano la Western Desert Force insieme alla 7° Divisione corazzata e alla 4° Divisione indiana.
Dopo alcuni successi iniziali, gli attaccanti si scontrarono con le forze italo-tedesche e dovettero fare i conti con l’inesperienza degli equipaggi dei propri carri; per volgere a proprio favore l’esito della battaglia, gli Inglesi provarono a coordinare un attacco insieme alla 9° Divisione australiana assediata a Tobruch ma fallì anche questo tentativo.
I britannici furono costretti a ritirarsi in Egitto e Rommel ne approfittò per riconquistare tutte le postazioni perdute fortificandole con i cannoni da 88 mm.

OPERAZIONE BATTLEAXE (15 GIUGNO – 17 GIUGNO 1941)

A metà giugno Churchill convinse Wavell ad organizzare un nuovo attacco per liberare la guarnigione di Tobruch; quest’ultimo, una volta rinforzate le sue truppe con l’arrivo di nuovi aerei e carri armati, il 15 giugno diede il via all’operazione "Battleaxe".
Gli Inglesi iniziarono l’offensiva cercando di accerchiare gli italo-tedeschi a Passo Halfaya e di colpirli, poi, alle loro spalle. I loro attacchi, però, si scontrarono con la forte resistenza nemica (Rommel aveva posizionato la propria artiglieria in postazioni interrate mimetizzando il terreno circostante) e i britannici subirono forti perdite causate, soprattutto, dai cannoni antiaerei tedeschi da 88 mm utilizzati come anticarro.
Il giorno 16 Rommel passò al contrattacco ed avanzò fino a far tornare gli Inglesi in Egitto e liberando la guarnigione di Passo Halfaya. I britannici persero ben 91 carri armati contro solamente 12 Panzer.

OPERAZIONE CRUSADER (18 NOVEMBRE – 30 DICEMBRE 1941)

Il 21 giugno 1941, dopo il fallimento dell’operazione " Battleaxe ", il generale Claude Auchinleck sostituì Wavell.
Fin dal giorno del suo arrivo al Cairo Auchinleck dovette subire costanti pressioni politiche per lanciare quanto prima un’offensiva nel deserto occidentale ma, dopo avere esaminato bene la situazione di tutto il fronte, ritenne che questa sarebbe stata possibile solamente nella prima metà di novembre.
Alla fine il giorno stabilito per l’attacco fu il 18 novembre; venne creato il comando dell'8ª armata affidata ad Alan Cunningham, reduce dalla campagna nell'Africa Orientale italiana. All'operazione fu assegnato il nome convenzionale "Crusader". L'8ª armata aveva il compito di riconquistare la Cirenaica e, per portarlo a termine, doveva distruggere le forze corazzate italo-tedesche. Il suo piano era quello di avanzare col grosso delle sue forze su Tobruch e, nel frattempo, fare finti attacchi lungo la direttrice meridionale.
L'Afrika Korps di Rommel poteva contare sulle due Panzer Division (la 15 e la 21°) e la 90° Divisione leggera; vi erano inoltre presenti sette divisioni italiane (Savona, Pavia, Bologna, Brescia, Trento, Trieste e la corazzata Ariete) con circa 150 carri armati. Sommando la Luftwaffe e la Regia Aeronautica le forze dell’asse schieravano anche circa 320 aeroplani.
L’8° Armata britannica era stata rinforzata fino a un totale di sette divisioni e con nuovi carri armati come il Crusader, il Matilda II, i Valentine e gli americani M3 Stuart. Il suo supporto aereo consisteva in 1.000 aeroplani della RAF.
Il 18 novembre, partendo da Marsa Matruh, iniziò l’offensiva dell'8a Armata britannica; il suo obiettivo era tenere impegnato in battaglia l’Afrika Korps mentre un corpo d’armata doveva attaccare Bardia, accerchiata da forze italiane. L’avanzata fu fermata nei dintorni di Sidi Rezegh.
Il 21 novembre Rommel, con il supporto aereo della Luftwaffe, contrattaccò lungo la frontiera egiziana per prendere alle spalle le forze britanniche. Per non cadere nella sua trappola Cunningham propose ad Auchinleck di ritirarsi ma questi rifiutò.
Il 27 novembre i neozelandesi riuscirono, dopo pesanti scontri con i bersaglieri italiani, a entrare in contatto con la guarnigione di Tobruch; Rommel si rese conto che l'Afrika Korps correva il rischio di rimanere intrappolato in Egitto e, il 7 dicembre, decise di iniziare una ritirata sulla linea di Gazala. La guarnigione di Tobruch era ormai liberata.
Neil Ritchie, sostituto di Cunningham dal 26 novembre, continuò però a incalzare gli italo-tedeschi costringendo Rommel (con la disapprovazione di Cavallero e Kesselring) ad abbandonare la Cirenaica. Il 28 dicembre le truppe dell’Asse ritornarono a schierarsi intorno ad El Agheila.
L’Italia e la Germania contarono circa 38.000 uomini fra morti, feriti e dispersi, le truppe britanniche circa 18.000.

lunedì 29 marzo 2010

La guerra in Africa Orientale (anni 1941-1942)

L’ATTACCO INGLESE ALLA SOMALIA

Le truppe britanniche si concentrarono in Kenya agli ordini del generale di Corpo d'Armata sir Alan Cunningham, fratello minore dell'Ammiraglio che comandava la squadra navale nel Mediterraneo. Erano composte da circa 75.000 uomini, di cui 27.000 Sudafricani, 33.000 provenienti dall'Africa orientale, 9.000 dall'Africa occidentale e 6.000 Inglesi.
Sotto pressione di Churchill, Archibald Wavell, comandante in capo per il Medio Oriente, e Cunningham decisero di attaccare la Somalia italiana; in un primo momento l’offensiva doveva scattare nei mesi di maggio-giugno, dopo la stagione delle piogge, ma, per la necessità di spostare poi uomini e mezzi sul fronte egiziano, si decise di anticipare l'inizio delle operazioni al febbraio 1941.
L’attacco fu sferrato prevalentemente dalla 12ª divisione africana del generale Godwin Austen e comprendente la 1ª brigata del Sud Africa, la 22ª brigata dell'Africa Orientale e la 24a brigata della Costa d'Oro.
Il confine tra Kenya e Somalia venne oltrepassato dalle truppe inglesi in tre punti (Dif, Liboi e Chisimaio) per raggiungere i due principali obiettivi ovvero la pista che collegava i paesi Afmadu e Gelid e la città portuale di Chisimaio, il cui possesso era fondamentale per il prosieguo dell’offensiva.
Il 10 febbraio Afmadu, dopo intensi bombardamenti da parte dell'aeronautica sudafricana, venne abbandonata dalle truppe italiane.
Il generale De Simone, comandante le truppe italiane in Somalia, decise di abbandonare Chisimaio per organizzare una linea difensiva sul fiume Giuba; dopo che la mattina del 14 febbraio cadde Gobuin, nel tardo pomeriggio la XXII° Brigata dell'Africa orientale, incontrando scarsissima resistenza, entrò nella città portuale.
La difesa sul Giuba si rivelò del tutto inutile per gli italiani dato che, con la scarsità delle acque del fiume, le truppe inglesi riuscirono ad attraversarlo a monte.
De Simone, trovatosi senza appoggio da parte dell’aviazione (praticamente assente nonostante l’abbondanza di apparecchi in Africa Orientale mentre i britannici avevano un ottimo appoggio aereo) e con la cronica mancanza di mezzi di trasporto, non dovette altro che continuare a ritirarsi mentre perfino il comando inglese si stupì della velocità della propria avanzata. Ne approfittò, quindi, per provare a cacciare definitivamente gli Italiani dalla Somalia utilizzandola, poi, come base per invadere l'Etiopia; a questo scopo il generale Cunningham ordinò che Mogadiscio, la capitale somala e dotata di un importante porto da utilizzare come base logistica per futuri rifornimenti, fosse conquistata il prima possibile.
L’avanzata britannica fu travolgente: in soli tre giorni la XXIII° Brigata della Nigeria percorse i 400 km che separano Gelib da Mogadiscio, facendo entrare in quest’ultima i primi reparti il 25 febbraio. Qui furono trovati intatti, oltre al porto che gli italiani non fecero nemmeno in tempo a danneggiare, 1.500.000 litri di benzina, 360.000 litri di carburante per aerei e un gran numero di provviste. .
I britannici si resero conto che la velocità di movimento delle proprie truppe mandava in confusione i comandi italiani, cosa che sfruttarono nella fase successiva della Campagna.

LA CAMPAGNA D' ERITREA

Il 19 gennaio 1941, sir William Platt, comandante delle truppe inglesi nel Sudan, sferrò un’offensiva conto le forze italiane che si trovavano in Eritrea; queste ultime, al comando del generale Trusci, erano composte da circa 17.000 uomini dotati di artiglieria e carri armati leggeri.
Due giorni dopo gli attaccanti occuparono Kassala mentre gli italiani si ritirarono prima ad Agordat e poi nella fortezza di Cheren.
Dopo 8 settimane di aspri combattimenti, il 2 marzo gli italiani si ritirarono da Cheren verso l’Asmara; la conquista della piazzaforte nemica costò agli inglesi 4000 uomini tra morti e feriti.
Il primo aprile le truppe della 4° e della 5° divisione indiana di Platt entrarono all’Asmara. L’obiettivo finale era Massaua, un porto importante sul Mar Rosso; una settimana dopo anche questa città si arrese causando agli italiani 3.000 morti, 5.000 feriti e 5.000 prigionieri.

LA FINE DELL’AFRICA ORIENTALE ITALIANA

Gli Italiani, dopo la perdita di Mogadiscio, si diressero verso Giggiga, ad oltre 900 km verso l’Etiopia, ma l’avanzata nemica proseguì senza sosta. Il compito di inseguirli fu affidato all'11ª divisione africana del maggiore generale Wetherall, al 1° raggruppamento di brigata sudafricano e alla 22° brigata dell'Africa Orientale. Questi reparti potevano contare su artiglieria pesante e un notevole appoggio aereo.
Le linee di resistenza che le truppe italiane in ritirata volevano organizzare (prima al Passo Babile e poi presso il fiume Bisidimo) non ebbero nemmeno il tempo di essere approntate dalla velocità dell’incalzare nemico. La città di Harrar, presidiata da tre brigate italiane che, in teoria, avrebbero dovuto impegnare molto gli inseguitori, venne dichiarata città aperta e fu presa, addirittura, senza dover combattere.
Ormai la capitale Addis Abeba si trovava solamente a 250 km e il Viceré Amedeo d'Aosta, che si rendeva conto di non poterla difendere, decise di far entrare in città le truppe inglesi senza colpo ferire, in modo che non si verificassero episodi avvenuti in altre parti dell’Etiopia (come a Dire Daua) dove gli italiani erano stati massacrati dalla popolazione locale. Le prime truppe entrarono in Addis Abeba all'alba del 5 aprile mentre, un mese dopo, ritornò in patria il Negus Hailè Selassiè.
Una volta perdute Mogadiscio e Addis Abeba, l’unico obiettivo rimasto all'esercito italiano era di resistere il più a lungo possibile per impegnare truppe inglesi che, altrimenti, sarebbero state mandate a combattere in Cirenaica. Le zone dove esso ancora combatteva erano a Gondar, nel nordovest del Paese, agli ordini del generale Nasi, a Gimma, nella regione dei Laghi, al comando del generale Gazzera e sull'Amba Alagi, dove il Duca d'Aosta riorganizzò gli uomini provenienti da Addis Abeba e dall'Eritrea.
L'Amba Alagi, che si trovava sulla strada che congiunge Massaua ad Addis Abeba, era una fortezza naturale costituita da nove vette che arrivavano anche a 3600 metri di quota e il Duca d’Aosta, che poteva contare su quasi 7.000 uomini, la considerava una posizione ideale per tentare l’ultima resistenza; aveva, infatti, fortificato le linee di difesa mediante reticolati e postazioni di artiglieria composte da oltre 40 cannoni. Inoltre i viveri erano sufficienti per tre mesi.
Il 29 aprile i Sudafricani, la V° Divisione indiana e gruppi di guerrieri abissini (al comando del tenente colonnello Ranking della Defence Force sudanese) raggiunsero l'Amba Alagi.
Il 3 maggio iniziarono l’offensiva ma in quel giorno tutti gli attacchi vennero respinti; solamente il giorno dopo gli indiani, appoggiati da un pesante fuoco di artiglieria, riuscirono a conquistare le cime di Pyramid, Whaleback ed Elephant. Il giorno 5 si impadronirono, invece, di Middle Hill. Il giorno 9 diressero le loro azioni verso la cima Gumsa che gli italiani difesero fino all'esaurimento delle munizioni.
I combattimenti proseguirono fino al 17 maggio in cui venne concordata la resa, con l'onore delle armi, di tutte le truppe presenti sull'Amba Alagi (circa 7000 uomini).
Dopo la resa e la cattura del Duca d’Aosta, Mussolini nominò comandante in capo delle truppe italiane in Africa orientale il generale Gazzera; egli si dovette occupare del coordinamento delle difese delle ormai ultime sacche di resistenza presenti in territorio etiope.
A Gimma la battaglia durò fino al 10 luglio 1941, quando l’ultimo battaglione italiano si arrese a Dembi. La città, invece, rimasta senza aiuti dall’esterno, era caduta il 21 giugno (vennero catturati 15.000 soldati).
Intorno a Gondar, invece, continuavano a resistere 40.000 uomini sotto il generale Nasi; di fronte, però, alla mancanza di munizioni e di viveri e al gran numero di bombardamenti a cui vennero sottoposti, alla fine si dovettero arrendere (Nasi salvò poco più di 22.000 uomini). Nella piazza di Gondar il tricolore venne ammainato il 27 novembre decretando la fine dell'Africa orientale italiana.
Per l'esercito inglese fu un grande successo e, in tre mesi di guerra, fece prigionieri oltre 230.000 uomini.