giovedì 8 aprile 2010

La campagna di Guadalcanal (1941-1942)

La conquista dell’isola di Tulagi

Nel maggio 1942 i giapponesi avevano occupato l’isola di Tulagi e, due mesi dopo, iniziarono a costruire una base aerea nella vicina isola di Guadalcanal. Da qui potevano minacciare i rifornimenti alleati tra gli Stati Uniti e l’Australia e programmare nuovi attacchi verso le isole Figi e le isole Samoa.
Per impedirlo, gli Alleati decisero di invadere le isole Salomone e i piani furono assegnati all’ammiraglio americano Ernest King, comandante in capo della flotta statunitense.
Per l’offensiva nel settore del Pacifico, nel maggio 1942, il generale maggiore dei marines Alexander Vandegrift ricevette l'ordine di spostare la 1° Divisione nella Nuova Zelanda mentre altre truppe vennero spostate in basi delle isole Figi, a Samoa, nelle Nuove Ebridi e nella Nuova Caledonia.
L’attacco alle Isole Salomone meridionali venne denominato in codice “Operazione Watchtower” e la data di inizio fu fissata per il 7 agosto 1942; all’inizio l’obiettivo dell’offensiva era solo l’isola di Tulagi ma, dopo che i ricognitori americani scoprirono la costruzione di una base a Guadalcanal, vi inclusero anche quest’ultima.
Le forze Alleate erano formate da 75 navi da guerra e da trasporto al comando del vice ammiraglio statunitense Frank Fletcher (imbarcato sulla portaerei USS Saratoga. Le forze anfibie erano, invece, guidate dal contrammiraglio americano Richmond K. Turner.

I primi sbarchi a Guadalcanal

Le navi alleate, la mattina del 7 agosto 1942, vennero divise in due gruppi: uno diretto a Guadalcanal e l’altro diretto verso Tulagi e le isole vicine di Gavutu e Tanambogo. Per prendere queste ultime e Tulagi venne dato l’ordine di assalto a 3.000 marines; il giorno 8 cadde Tulagi e, il giorno seguente, le altre due. A Guadalcanal, invece, la resistenza contrapposta dai giapponesi fu molto più tenace.
Qui, alle 9.10 di mattina del 7 agosto, 11.000 uomini al comando di Vandegrift sbarcarono tra la punta Koli e la punta Lunga. Avanzando nella foresta i soldati non incontrarono difficoltà e si impossessarono della base (che fu chiamata “Henderson Field” in memoria di un aviatore ucciso nella battaglia delle Midway); i difensori, martellati con bombardamenti dal mare e dal cielo e non muniti di armi pesanti, erano, infatti, fuggiti verso ovest.
A Rabaul il contrammiraglio Mikawa, Comandante dell’8° Flotta nipponica, decise di mandare immediatamente rinforzi a Guadalcanal.
Nella notte tra l’8 e il 9 agosto alcuni incrociatori giapponesi affondarono quattro incrociatori Alleati (uno australiano e tra statunitensi); questa sconfitta convinse il contrammiraglio americano Frank Fletcher a ritirare le sue unità dal Mar dei Coralli nel timore di ulteriori perdite causate da navi e aerei nemici.
Venendo a mancare l’apporto delle portaerei, il contrammiraglio Richmond Turner, comandante dei mezzi anfibi di stanza nel Pacifico, ritirò i suoi convogli all’ancora a Guadalcanal mentre i rifornimenti erano ancora in fase di scarico. Furono, in pratica, allontanati, oltre a metà dei rifornimenti stessi (che non erano ancora stati sbarcati) necessari alle truppe, anche 1.400 soldati che si trovavano a bordo delle navi.
Questa decisione di ritirare la flotta suscitò molte polemiche tra i marines che si videro privati anche di molto equipaggiamento pesante. Questi però, il 18 agosto, terminarono, dopo quattro intensi giorni di lavoro, la costruzione della base aerea di Henderson rendendola pronta per essere utilizzata.
Il 20 agosto da una portaerei statunitense furono inviati alla base due gruppi di aerei, uno composto da 19 caccia “Wildcat” e l’altro formato da 12 bombardieri “Dauntless”.

La battaglia di Tenaru

Per riprendere il controllo dell’aeroporto, i nipponici si affidarono alla 17° Armata dell'esercito (che era di base a Rabaul ed era al comando del tenente generale Hyakutake) con, a supporto, la Flotta Combinata di Isoroku Yamamoto.
L'armata, però, poteva inviare solo poche unità: la 35° Brigata Fanteria (comandata da Kawaguchi e situata a Palau, il 4º Reggimento nelle Filippine e il 28º Reggimento (al comando del colonnello Ichiki) vicino a Guam. Le tre unità si diressero tutte verso Guadalcanal e arrivò per primo il reggimento di Ichiki che sbarcò, il 19 agosto, a punta Taivu, ad est del perimetro difensivo americano. I giapponesi, all’inizio del giorno 21, si lanciarono subito in un attacco frontale ai marines ma subirono gravi perdite; all’alba gli statunitensi passarono, a loro volta, all’offensiva e uccisero la maggior parte dei soldati nemici sopravvissuti. Ichiki, una volta resosi conto della sconfitta, si tolse la vita mentre i superstiti rimasero in attesa di rinforzi.

La battaglia delle Isole Salomone orientali

Intanto, il 16 agosto, nuovi rinforzi giapponesi (1.400 uomini del 28° Reggimento Fanteria più altri 500 delle truppe speciali da sbarco) partirono verso Guadalcanal; queste truppe erano scortate da 13 unità da guerra al comando contrammiraglio Raizo Tanaka mentre, a supporto dello sbarco nipponico, Yamamoto ordinò a Chuichi Nagumo di dirigersi verso le isole Salomone Orientali con la sua flotta comprendente tre portaerei (“Ryujo”, “Shokaku” e “Zuikaku”) e altre 30 navi.
Anche gli statunitensi schieravano tre portaerei statunitensi per opporsi alle manovre giapponesi.
Tra il 24 e il 25 agosto i due schieramenti ingaggiarono battaglia nella Battaglia delle isole Salomone Orientali, che causò ingenti danni a entrambe le flotte; in particolare, quella giapponese perse una delle portaerei (la “Ryujo”) portaerei leggera e una nave da trasporto. Tanaka dovette dirigersi a nord, nelle isole Shortland, dove spostò le truppe superstiti su cacciatorpediniere per inviarle successivamente a Guadalcanal.

I “Tokyo Express”

I danni subiti nella Battaglia delle isole Salomone Orientali convinsero Tanaka a inviare a Guadalcanal i convogli di truppe attraverso navi veloci come i cacciatorpediniere (e non tramite lente navi di trasporto) per poter limitare al minimo il pericolo dovuto agli attacchi aerei statunitensi.
Questo trasporto di soldati nipponici venne definito, dagli Alleati, “Tokyo Express”; questo sistema, che si svolgeva durante le ore notturne, non venne contrastato dalle navi e dagli aerei americani (che invece operavano con buona efficienza di giorno) e così, tra il 29 agosto e il 4 settembre, il Sol Levante riuscì a far sbarcare a Taivu Point circa 5.000 soldati.
Il 31 agosto giunse anche il generale Kawaguchi, nuovo comandante di tutte le forze presenti sull'isola. A Guadalcanal giunse anche un altro convoglio di circa 1.000 uomini (guidati dal colonnello Oka) che presero terra a Kalimbo, a ovest del perimetro difensivo alleato.

La battaglia di Edson's Ridge

Con i nuovi arrivi, Kawaguchi mise a punto un nuovo piano per attaccare gli statunitensi; divise le sue forze in tre tronconi: lui avrebbe guidato l’attacco, con 3.000 uomini divisi in 3 battaglioni, dalla giungla a sud del perimetro, gli uomini al comando di Oka avrebbero attaccato da ovest e quelli di Ichiki da est.
Il 7 settembre i soldati di Kawaguchi lasciarono Taivu per dirigersi verso Lunga Point seguendo la costa; a Taivu rimasero solo 250 uomini per proteggere la base dei rifornimenti. Questi, però, furono avvistati dagli uomini del tenente colonnello Merritt Edson che, il giorno dopo, li attaccarono conquistando il villaggio di Tasimoboko e ricacciando i nipponici verso la giungla. Gli Alleati, oltre a trovare grosse quantità di carburante, munizioni e cibo, si impossessarono anche di documenti con i quali scoprirono l’imminente attacco giapponese.
Quest’ultimo, come riuscì esattamente a prevedere Edson, si svolse lungo un crinale stretto chiamato “Lunga Ridge” dato che era parallelo al fiume Lunga e a sud della base di Henderson; per difenderlo Edson, l’11 settembre, schierò 840 soldati.
I nipponici attaccarono nella notte del 12 settembre facendo ripiegare una compagnia di marines americani. La notte successiva, Kawaguchi, con 3.000 uomini, ne affrontò 830 nemici ad ovest del crinale: all’inizio sfondarono le linee statunitensi ma questi poi respinsero gli assalitori con truppe provenienti dalla parte settentrionale.
Due compagnie di Kawaguchi lanciarono un’offensiva anche sul lato sud del crinale facendo retrocedere gli uomini di Edson sulla collina 124 situata nella parte centrale. Da qui, però, gli americani, con il supporto dell’artiglieria, riuscirono a respingere tutti gli attacchi nipponici causando loro gravi perdite.
Alcune unità giapponesi riuscirono a entrare nella base aerea ma, alla fine, vennero respinte.
Gli attaccanti ebbero 850 perdite mentre gli americani 104.
Hyakutake venne a sapere della sconfitta di Kawaguchi e comprese che, se voleva sconfiggere gli Alleati a Guadalcanal, doveva rinunciare all’altra offensiva dei nipponici verso Port Moresby e la Nuova Guinea. Per impossessarsi della base aerea di Henderson, Hyakutake decise di inviare ulteriori rinforzi.
Intorno alla metà di settembre gli Alleati trasferirono a Guadalcanal il 3º Battaglione Marines (proveniente da Tulagi), più di 4.000 uomini della 3a Brigata, munizioni e carburante per gli aerei. Con questi rinforzi gli statunitensi non permisero più ai nipponici di superare la linea difensiva intorno alla base aerea.
Vandegrift effettuò anche alcune modifiche tra i suoi comandanti promuovendo i giovani ufficiali che si erano messi in mostra (tra cui l’appena promosso colonnello Merritt Edson, posto a capo del 5º reggimento) e trasferendo altrove quelli che non si erano dimostrati validi sul campo.
Anche i giapponesi, nel frattempo, stavano facendo affluire nuovi rinforzi; nella baia Kamimbo venne fatto sbarcare il 3º Battaglione del 4º Reggimento Fanteria mentre i "Tokyo Express" portarono altre truppe, cibo e munizioni. Dalle Indie Orientali Olandesi arrivarono anche la 2° e la 38° Divisione. Tutto questo per permettere un nuovo grande attacco alla metà di ottobre.

La battaglia di Henderson Field

Il 13 ottobre 1942 sei navi cargo giapponesi con, al seguito, otto cacciatorpediniere si diressero verso Guadalcanal; trasportavano 4.500 soldati, suddivisi nel 16º e 230º Reggimento Fanteria, due batterie di artiglieria pesante e un gruppo di carri armati.
Per proteggere il convoglio dagli aerei statunitensi, la nella notte tra il 13 e il 14 Yamamoto fece bombardare la base di Henderson da due navi da battaglia e nove cacciatorpediniere; entrambe le piste della base furono gravemente danneggiate, furono incendiati i depositi di carburante e furono distrutti 48 velivoli su 90.
Il personale della base, però, fu in grado di ripristinare una delle piste solamente in poche ore e così poterono giungere 17 Dauntless e 20 Wildcat. Questi, il giorno 15, bombardarono un convoglio giapponese che stava scaricando truppe a Tassafaronga e riuscì a distruggere tre navi da trasporto.
Nella prima quindicina di ottobre il Giappone inviò a Guadalcanal 15.000 uomini e, con queste truppe di rinforzo, Hyakutake decise di passare all'offensiva.
I nipponici stabilirono che l'attacco principale sarebbe effettuato da sud dalla 2° comandata del tenente generale Masao Maruyama e formata da 7.000 uomini suddivisi in tre reggimenti di fanteria. Essi attraversarono la giungla e si posizionarono nei pressi della riva est del fiume Lunga; in contemporanea altre unità nipponiche avanzarono da ovest lungo la costa.
Le prime unità ad attaccare furono, il 23 ottobre, queste ultime con battaglioni di fanteria e 9 carri; furono però respinte subendo forti perdite e la distruzione di tutti i carri. La sera del 24 andarono all’offensiva anche le truppe di Maruyama ma anch’esse senza successo.
Ulteriori attacchi giapponesi non andarono a buon fine e, alle 8 del mattino del 26 ottobre, Hyakutake decise di cessare le offensive ordinando ai suoi uomini di ritirarsi.
Durante questi combattimenti i nipponici persero tra i 2.200 e i 3.000 uomini mentre gli americani ebbero solamente 80 morti.

La battaglia delle Isole di Santa Cruz

La battaglia delle Isole di Santa Cruz fu combattuta tra la flotta di Yamamoto, comprendente portaerei e grande navi da guerra, e quella alleata sotto la guida di William F. Halsey (che, il 18 ottobre, aveva sostituito Ghormley a causa dell’atteggiamento troppo pessimistico di quest’ultimo).
Le due flotte si scontrarono la mattina del 26 ottobre; alla fine gli statunitensi persero la portaerei “Hornet” ed ebbero seriamente danneggiata la “Entreprise” ma anche i nipponici subirono pesanti perdite aeree e navali. Queste perdite erano terribili per il Sol Levante perché ormai i giapponesi non erano più in grado di sostituire gli esperti piloti perduti e le navi affondate, mentre la potente industria americana metteva sulla bilancia tutta la sua forza facendo pendere le sorti del conflitto verso la vittoria alleata.

I combattimenti di novembre

Le truppe giapponesi avevano subito forti perdite negli scontri precedenti e, per sfruttare questo vantaggio, Vandegrift inviò sei battaglioni di marine e uno dell’esercito con lo scopo di impossessarsi di Kokumbona, dove vi era il quartier generale della 17° Armata.
Gli americani attaccarono il primo novembre e, due giorni dopo, ebbero la meglio sulle forze a difesa della zona di punta Cruz; gli statunitensi riuscirono anche a contrastare altri soldati del Sol Levante che avevano preso terra vicino a Koli Point. Gli americani chiusero in una sacca i loro nemici a Gavaga Creek facendo perdere loro poco meno di 500 uomini.
Il 4 novembre, al comando del tenente colonnello Carlson, nella baia di Aola sbarcarono due compagnie di marines; il giorno dopo essere ricevettero l’ordine di attaccare le truppe giapponesi in fuga in ritirata dopo gli scontri precedenti. Ci furono numerosi scontri e, quando i nipponici riuscirono ad arrivare al fiume Matanikau, avevano perso almeno 500 soldati. Alla fine, quando ritornarono alle postazioni della 17° Armata, ne erano rimasti superstiti meno di 800.
Alcune spedizioni del “Tokyo Express” dei primi giorni di novembre fecero arrivare al Sol Levante alcune truppe di rinforzo del 228º Reggimento della 38° Divisione e, con l’apporto di esse, i giapponesi respinsero gli attacchi statunitensi del 10 e del 18 novembre.

La battaglia navale di Guadalcanal

Dopo la sconfitta nella battaglia di Henderson Field, i giapponesi necessitavano di nuovi rinforzi per poter riprovare a conquistare la base aerea. L’esercito, quindi, chiese a Yamamoto assistenza per poter trasportare le nuove truppe ed egli fornì 11 grandi navi da trasporto in grado di portare a bordo 7.000 uomini, equipaggiamento e munizioni.
A supporto di questo convoglio inviò una flotta di navi da guerra comprendente le navi da battaglia “Hiei” e “Kirishima” aventi il compito di bombardare la base aerea alleata colpendo le piste e distruggendo gli aerei. Le navi da guerra erano comandate dal Vice Ammiraglio Hiroaki Abe che si trovava a bordo della “Hiei”.
Della preparazione della nuova offensiva giapponese i servizi segreti Alleati ne vennero a conoscenza i primi di novembre 1942. Gli americani inviarono un grosso convoglio (Task Force 67) per trasportare marines e due battaglioni dell’esercito; esso era scortato dalle navi di due flotte al comando dei Contrammiragli Daniel J. Callaghan e Norman Scott e dagli aerei della base Henderson. Nonostante alcuni attacchi aerei nemici subiti, riuscirono ad arrivare a destinazione e a sbarcare il loro carico.
I ricognitori statunitensi scoprirono le navi giapponesi che si avvicinavano e venne mandata loro incontro la flotta di Callaghan composta due incrociatori pesanti, tre incrociatori leggeri e otto cacciatorpediniere.
Le opposte flotte si intercettarono nella notte del 13 novembre tra Guadalcanal e l’Isola di Savo; l’oscurità, a causa della luna nuova, era praticamente totale e le navi aprirono il fuoco quando si trovavano a una distanza molto ravvicinata. Callaghan, durante la battaglia, perse, oltre che la vita, anche tutte le sue navi tranne un cacciatorpediniere e un incrociatore; Abe, invece, perse due cacciatorpediniere e subì gravi danni alla sua stessa nave ammiraglia.
Abe ordinò alle sue navi di ritirarsi senza bombardare la base di Henderson; il giorno gli aerei americani da qui decollati affondarono definitivamente la “Hiei”.
Yamamoto ordinò al convoglio delle navi trasporto (sotto la guida di Raizo Tanaka) di aspettare una giornata prima di muoversi verso Guadalcanal; ordinò, inoltre a Nobutake Kondo di mettere insieme una nuova flotta con le navi da guerra provenienti da Truk e quelle superstiti della flotta di Abe; esse avrebbero dovuto attaccare la base di Henderson il 15 novembre.
Nella notte del giorno 14 due unità giapponesi salpate da Rabaul e al comando di Gunichi Mikawa riuscirono a colpire la base alleata anche se gli americani riuscirono a mantenerla operativa senza nemmeno la perdita di un solo velivolo. I giapponesi qui commisero un grave errore: convinti che la base fosse stata messa fuori uso, il convoglio di Tanaka salpò dirigendosi verso Guadalcanal ma fu presto attaccato dagli aerei americani. Essi affondarono un incrociatore pesante e sette delle undici navi da trasporto. Le rimanenti quattro proseguirono mentre, nel frattempo, si avvicinava anche la flotta di Kondo.
Per intercettare quest’ultima, Halsey gli mandò incontro le navi da battaglia “Washington” e “South Dakota” con quattro cacciatorpediniere. Quando le due flotte ingaggiarono il combattimento gli americani persero tre caccia e subirono gravi danni alla” South Dakota”; la “Washington”, però, riuscì a colpire seriamente la nave ammiraglia nipponica.
Alla fine Kondo decise di ritirarsi senza aver bombardato la base di Henderson.
Intanto le superstiti quattro navi da trasporto giapponesi arrivarono nei pressi di Tassafaronga, a Guadalcanal, e scaricarono sulle spiagge i loro rifornimenti; alle 6 del mattino, però, gli aerei alleati li attaccarono consentendo solamente a meno di 3.000 uomini di prendere terra, per di più con scarsi rifornimenti.
Questa disfatta causò la cancellazione delle offensive pianificate dai nipponici per il mese di novembre.
Il 26, alla testa della neo costituita 8° Armata di Rabaul (comprendente la 17ª Armata di Hyakutake e la 18ª di stanza in Nuova Guinea) fu nominato il tenente generale Imamura, che, inizialmente, rinnovò la priorità di conquistare la base di Henderson. L’avanzata alleata a Buna, però, lo costrinse a modificare i suoi piani; siccome Rabaul poteva essere messa in pericolo, Imamura non inviò più rinforza a Guadalcanal per concentrarsi, invece, sulla difesa della Nuova Guinea.
Nel dicembre del 1942 il generale Vandegrift fu sostituito dal generale Alexander Patch dato che la 1° Divisione dei marines venne gradualmente rimpiazzata dall’esercito.

Il ritiro del Giappone da Guadalcanal

Il 12 dicembre 1942 la marina nipponica chiede di abbandonare Guadalcanal ed anche alcuni ufficiali dell’esercito fecero presente che era diventato ormai impossibile riprendere il controllo dell'isola. Dopo alcune consultazioni, il giorno 26 i nipponici ordinarono di ritirarsi e di stabilire una nuova linea difensiva nelle isole Salomone centrali e in Nuova Guinea.
Del ritiro l’Imperatore Hirohito fu informato due giorni dopo acconsentendo definitivamente il 31.

La conquista giapponese delle Filippine

Le Filippine, cedute dalla Spagna agli Usa dopo la guerra Ispano-Americana del 1898, erano vicine ad ottenere la piena indipendenza ma la loro difesa rimaneva sotto la responsabilità statunitense. Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, il piano difensivo americano prevedeva una grossa vittoria navale mediante l’utilizzo delle corazzate di base a Pearl Harbor; anche se queste fossero giunte con ritardo, le truppe filippine e statunitensi presenti sulle isole si sarebbero, nel frattempo, rintanate nella piazzaforte di Bataan e nell’isola fortificata di Corregidor.
Nel luglio 1941 il comando di tutte le Forze Americane nell’Estremo Oriente venne affidato al generale Douglas MacArthur. Egli era convinto che i nipponici, in caso di attacco, sarebbero dovuti essere fermati già al momento dello sbarco sulle spiagge; per questo fece schierare, sull’isola di Luzon, un centinaio di bombardieri B-17 “Flying Fortress” di base all’aeroporto “Clark”.
A causa del fuso orario, la notizia dell’attacco giapponese a Pearl Harbor giunse a Manila solamente alle 2.30 del mattino dell’8 dicembre 1941.
Solo a mattinata avanzata gli americani decisero di bombardare i campi d’aviazione giapponesi a Formosa; le missioni furono fissate al pomeriggio. Durante il pranzo, però, furono i nipponici a precederli e ad attaccare l’aeroporto “Clark”. L’attacco durò circa un’ora e colpì, oltre ai depositi e alle aviorimesse, anche i bombardieri americani schierati sulle piste; cento di questi furono distrutti al suolo e vi furono centinaia di morti.
Tra il 10 e il 14 dicembre i giapponesi sbarcarono ad Aparri e a Legazpi; le divisioni filippine batterono in ritirata mentre gli americani vennero tenuti di riserva.
Il 22 dicembre i nipponici presero terra, con 43.000 uomini, anche nel Golfo di Lingayen, nell’isola di Luzon; nonostante forti perdite, alla fine sopraffecero la resistenza dei difensori e si misero in marcia verso Manila congiungendosi con i reparti sbarcati in precedenza ad Aparri.
Gli americani mandarono in battaglia il loro 26° Cavalleria ma questo fu sopraffatto dai veicoli corazzati nemici presso Binalonen. MacArthur, non potendo continuare una decisa resistenza, scelse di ritirarsi nella penisola di Bataan. Il giorno 23, dopo che i nipponici sbarcarono settemila soldati anche nella baia di Lamon (nella parte meridionale di Luzon), dichiarò Manila “città aperta” e si imbarcò per l’isola di Corregidor dove, nella galleria di Malinta, si trovava il suo nuovo Quartier Generale.
Il 1° gennaio 1942 i giapponesi entrarono a Manila e si prepararono ad attaccare la penisola di Bataan dove, tra americani e filippini, erano presenti 80.000 uomini.

La conquista di Bataan

Dopo che il 3 gennaio Wainwright assunse il comando dei soldati americani e filippini che si trovavano sia nella penisola di Bataan che nell’isola di Corregidor, i giapponesi sferrarono la loro offensiva, il giorno 9, guidati dal tenente generale Masaharu Homma; egli impiegò uomini non più giovani dato che aveva mandato le sue migliori unità alla conquista delle Indie Orientali Olandesi.
I nipponici si lanciarono frontalmente contro i filippini ma subirono gravi perdite; oltre a non aver fatto ricognizioni preventive, avevano sottovalutato la forza e la determinazione dei difensori e completamente sbagliato l’approccio al combattimento.
Il 22 gennaio Homma inviò alcuni reparti sulle coste di Bataan ma le truppe di MacArthur li contrattaccarono efficacemente; quattro giorni dopo i giapponesi si gettarono ancora all’assalto delle trincee alleate ma, alla fine, furono ancora respinti con gravi perdite da entrambe le parti.
L’8 febbraio Homma sospese gli attacchi e si ritirò in postazioni più facilmente difendibili. Lo stesso giorno, però, MacArthur seppe da Washington che i rinforzi non sarebbero mai arrivati in suo aiuto.
L’11 marzo 1942 MacArthur, con la sua famiglia e lo stato maggiore, fuggì a bordo di una motosilurante e raggiunse Mindanao, nelle Filippine meridionali. Da qui, raggiunse l’Australia a bordo di un B-17. Al suo posto, il giorno 20, venne nominato Wainwright che, a sua volta, designò il generale Edward King comandante di Bataan.
Qui, il 3 aprile, i giapponesi scatenarono una nuova offensiva supportata da un massiccio bombardamento aereo e dall’appoggio di numerosi pezzi di artiglieria. Questa volta gli americani e i filippini non poterono contenere gli attacchi; le migliori unità vennero evacuate sull’isola-fortezza di Corregidor mentre, il giorno 9, King si arrese consegnando ai nipponici 10.000 soldati statunitensi e 60.000 filippini.

L'assedio di Corregidor

Il 10 aprile il Sol Levante iniziò l’assedio di Corregidor; 150 batterie cannoneggiarono la fortezza ininterrottamente per 27 giorni mentre i bombardamenti aerei si facevano sempre più pesanti. Il 2 maggio venne centrata la polveriera: sessanta uomini morirono sul colpo e vi furono centinaia di feriti.
Quattro giorni dopo i giapponesi sbarcarono all’estremità dell’isola (presso Punta Nord) e, dopo violenti combattimenti con i difensori, a metà mattinata si trovavano già nei pressi della galleria di Malinta affollata di feriti e rifugiati.
Sotto la minaccia nipponica di uccidere gli ammalati e i civili nel caso non fossero state accettate le condizioni di resa, a Wainwright non rimase altro che ordinare a tutte le forze americane presenti nelle Filippine di arrendersi.

La conquista di Singapore

Singapore è il principale centro economico della Malacca; quest’ultima era il più importante possedimento inglese nel sud-est asiatico dato che era ricco di petrolio, gomma e stagno.
Per la sua difesa, il Comandante in Capo, tenente generale Percival, disponeva di 88.000 uomini suddivisi nella 9° e 11° Divisione Indiana e nell’8° Australiana.
Nella mattinata dell’8 dicembre 1941 i giapponesi sbarcarono a Kota Bahru, più di 600 chilometri a nord di Singapore; altre truppe presero terra a Singora e a Pattani (quest’ultima località in Thailandia, paese dove la popolazione accolse con entusiasmo i nipponici che occuparono Bangkok praticamente senza colpo ferire).
Alle 16 i nipponici si impossessarono dell’aeroporto di Kota Bahru mentre, nel frattempo, i velivoli del Sol Levante conquistarono il predominio dei cieli eliminando gli aerei britannici.
Le truppe giapponesi avanzarono velocemente e il 15 dicembre entrarono nel villaggio di Gurun costringendo l’11° Divisione Indiana a ritirarsi verso il fiume Muda. Venne bombardata pesantemente la città di George Town sull’isola di Penang e, nella notte del giorno 16, per ordine di Percival, gli inglesi la evacuarono (lasciando i malesi e gli indiani al loro destino) dirigendosi verso sud.
L’offensiva delle truppe del Sol Levante procedette e il 27 dicembre esse erano in vista di Kampar (sul lato ovest della penisola di Malacca) e di Kuantan (sul lato est). Due giorni dopo la XII brigata appartenente all’11° Divisione dovette abbandonare Kampar ripiegare su Bidor.
Il primo giorno dell’anno del 1942 i nipponici continuarono la loro offensiva verso sud; ad est conquistarono e oltrepassarono Kuantan, a ovest giunsero a Telok Anson; per evitare l’accerchiamento i britannici iniziarono a ritirarsi fino alla linea del fiume Slim nonostante fossero fatte bersaglio dall’aviazione nemica.
In questo settore, l’11° Divisione Indiana, dopo aver respinto un attacco lungo la linea ferroviaria Pinang - Singapore, dovette cedere ai nuovi attacchi condotti con l’appoggio dei carri armati e si attestò più a sud nei pressi di Kuala Kubu.
Il giorno 7 arrivò a Singapore il generale Archibald Wavell.
Il 9 gennaio il III corpo d’armata indiano iniziò la ritirata verso sud lasciando due divisioni a coprire le zone di Seremban e Port Dickson per ritardare l’avanzata giapponese. Ventiquattro ore dopo venne evacuata anche la capitale malese Kuala Lumpur che venne subito occupata dai nipponici.
Il 14 i britannici organizzarono una nuova difesa nella parte meridionale della Malacca, precisamente sulla linea Muar - Segamat - Labis - Mersing. Già la giornata seguente, però, nonostante gravi perdite inflitte da alcuni reparti australiani, i nipponici raggiunsero la sponda settentrionale del fiume Muar.
Il 16 i giapponesi lo attraversarono e conquistarono il villaggio; nonostante i britannici facessero arrivare rinforzi, gli attaccanti li mantennero sempre sotto pressione e concentrarono le loro forze per l’offensiva contro il settore meridionale della penisola della Malacca. Dopo che i nipponici sbarcarono anche a nord di Batu Pahat, il comando inglese ordinò la ritirata per evitare l’accerchiamento.
A Muar la battaglia si concluse con la vittoria giapponese che, il 22 gennaio, sconfisse e annientò la XLV brigata indiana; anche la piazzaforte di Singapore fu sottoposta a sempre più frequenti bombardamenti che causarono molti morti e feriti.
Di fronte alla continua avanzata nemica, il 27 gennaio il generale Percival ebbe, da Wavell, il permesso di ritirare le sue truppe a Singapore nel momento che più riteneva opportuno. La ritirata britannica nell’isola avvenne in parte attraverso Johore Bharu e la diga che la collegava all’isola, in parte via mare; gli uomini fuggirono disordinatamente e la maggior parte della XXII brigata indiana fu tagliata fuori dall’offensiva nipponica.

La conquista di Singapore

Il 31 gennaio 1942, alle 8.15 del mattino, le ultime truppe britanniche si ritirarono nell’isola di Singapore e distrussero la diga di collegamento alla terraferma. La sua difesa venne suddivisa in tre zone: la nord (al comando del generale Heath), la sud (generale Keith Simmons) e la ovest (generale Bennett).
Dopo avere occupato Johor Baru, i nipponici bombardarono, con aviazione e artiglieria, i depositi portuali e l’aeroporto di Kalang. La sera dell’8 febbraio la 5° e la 18° divisione giapponese sbarcarono nella parte nord-occidentale dell’isola, ebbero la meglio sui difensori nemici e avanzarono verso l’importante campo d’aviazione di Tengah, impadronendosene il giorno successivo.
Gli attacchi degli invasori continuarono senza sosta; l’11 il generale Yamashita fece lanciare su Singapore dei volantini con la richiesta di arrendersi ma gli inglesi si rifiutarono. La sera del 12 i difensori ormai si erano ritirati lungo il perimetro difensivo della città mentre i rifornimenti diminuivano sempre di più. Anche i cannoni costieri da 381 mm, che in teoria avrebbero dovuto rendere inespugnabile la piazzaforte, furono resi inoffensivi addirittura prima che sparassero un solo colpo.
Il 15 febbraio, dopo che fu distrutto l’impianto idrico della città, gli inglesi si arresero. Il generale Percival firmò la resa incondizionata alle 19.50 con effetto immediato. I giapponesi fecero 70.000 prigionieri mentre la conquista della penisola malese e di Singapore costò loro 10.000 uomini tra morti, feriti e dispersi.

L'invasione della Sicilia (Operazione Husky)

Fin dall’inizio del 1943 gli anglo-americani intensificarono i bombardamenti aerei contro le città italiane in previsione dello sbarco alleato in Sicilia; questo, oltre che a causare la probabile capitolazione italiana, serviva per distogliere divisioni tedesche dal fronte orientale, venendo in aiuto alle truppe sovietiche che, in quel momento, stavano compiendo il massimo sforzo contro le truppe di Hitler.

La conferenza di Casablanca

Il 14 gennaio, a Casablanca, si incontrarono Roosevelt e Churchill; quest’ultimo sostenne la necessità di attaccare il “ventre molle dell’Europa”, ovvero il sud dell’Italia, in previsione, poi, di un massiccio sbarco da tenere in Francia nel 1944 per aprire il cosiddetto “secondo fronte” tanto richiesto da Stalin. A Casablanca fu, quindi, decisa l’invasione della Sicilia, da tenersi nei mesi di giugno o luglio, la cui pianificazione venne affidata al generale Eisenhower; lo sbarco, secondo i servizi segreti alleati, avrebbe avuto un forte impatto psicologico sulla popolazione causando, oltre che la resa italiana, anche la caduta del fascismo.
Nei mesi da febbraio a maggio del 1943 i bombardamenti anglo-americani si fecero sempre più frequenti e intensi; colpirono, oltre alle città della Sicilia e della Sardegna, anche Torino, La Spezia, Livorno, Napoli (più di sessanta incursioni aeree), Bari e Taranto causando dappertutto ingenti danni ma, soprattutto, numerose vittime civili.
La data esatta dell’invasione, fissata alla fine per il 10 luglio, venne decisa in maggio a una conferenza a Washington a cui parteciparono Roosevelt, Churchill e i rispettivi Stati Maggiori.

La conquista di Pantelleria

Per la riuscita dello sbarco si rendeva necessario, per gli Alleati, occupare l’isola di Pantelleria, situata nel Canale di Sicilia; una volta preso il possesso la si sarebbe usata come base da cui fare decollare i bombardieri.
La propaganda italiana la definiva un’isola praticamente inespugnabile (era difesa da 11.000 uomini e 180 cannoni) e Mussolini arrivò a dire che sarebbe stata la “Stalingrado d’Italia”.
Gli anglo-americani sferrarono su Pantelleria violente campagne aeree: in soli sei giorni, tra il 6 e l'11 giugno 1943, vi furono sganciate 5.000 tonnellate di bombe. Gli italiani si arresero immediatamente non provando nemmeno a resistere all’offensiva nemica: tutti gli 11.000 difensori furono presi prigionieri e gli Alleati non ebbero nemmeno una perdita.
Nei due giorni successivi alla caduta di Pantelleria capitolarono anche le isole vicine di Lampedusa, Linosa e Lampione; gli abitanti di Lampedusa si arresero, addirittura, a un pilota di un aereo costretto ad atterrare per mancanza di carburante!

Lo schieramento italo-tedesco in Sicilia

In Sicilia si trovava la Sesta Armata italiana al comando del generale Alfredo Guzzoni; era composta da circa 220.000 uomini (raggruppati nelle divisioni “Aosta”, “Assietta”, “Livorno” e “Napoli”) ma era molto carente sia come armamento che come mezzi motorizzati; l’unica eccezione era la presenza di un battaglione di artiglieria semovente (aggregato alla “Livorno”) in grado di contrastare efficacemente qualunque mezzo corazzato alleato. Inoltre, mancava una vera protezione antiaerea.
La Regia Marina non intervenne a protezione della costa siciliana e non mandò nessuna nave per contrastare la flotta alleata; questa decisione fu giustificata dal fatto che lo scontro sarebbe stato impari vista la schiacciante superiorità numerica nemica.
I tedeschi, invece, schieravano 40.000 uomini, perfettamente equipaggiati, suddivisi nella divisione “Hermann Goring” e in reparti della 15°.

Lo schieramento alleato

Gli Alleati prevedevano di impegnare nello sbarco siciliano 160.000 uomini, 2.775 navi da guerra e da trasporto, più di 1.100 mezzi da sbarco, 4.000 aerei, circa 14.000 veicoli, 600 carri armati e 1.800 cannoni.
La Royal Navy schierava due portaerei (“Formidable” e “Indomitable”), quattro corazzate (“Nelson”, “Rodney”, ”Warspite” e “Valiant”), dieci incrociatori e 27 cacciatorpediniere. La marina americana contribuiva con cinque incrociatori e 25 cacciatorpediniere.

Lo sbarco

Alle prime ore del 10 luglio 1943 iniziò l’operazione “Husky” al comando di Eisenhower. Le forze alleate che vi erano destinate, raggruppate sotto il 15º Gruppo di Armate guidato dal generale inglese Harold Alexander, erano la 7° armata statunitense e l’8° armata britannica.
La 7° armata americana, al comando di George Patton, sbarcò quattro divisioni (la 1°, la 2° corazzata, la 3° e la 45°) nel tratto tra Gela e Licata mentre l’82° Divisione Aviotrasportata si lanciò tra Gela e Scoglitti.
Nelle prime 24 ore gli statunitensi sbarcarono 160.000 uomini. La maggior parte delle truppe italiane si arrese praticamente senza combattere e solamente alcuni reparti continuarono a lottare lealmente al fianco dei tedeschi. La difesa della Sicilia passò, quindi, esclusivamente alle truppe di Hitler che vi schieravano, al comando del tenente generale Hube, il 14° Panzer Korps composto dalla Panzer Division “Hermann Goring” e dalla 15° Panzer “Grenadier”.
Vi furono aspri sconti con i nazisti e si tenne una cruenta battaglia nella piana di Gela ma, alla fine, gli americani riuscirono a prevalere.
Il 16 luglio occuparono Agrigento, il 18 Caltanissetta, il 22 Trapani e Palermo; inoltre nel giro di un mese conquistarono tutti gli aeroporti del’isola e fecero 18.000 prigionieri.
L’8° armata inglese era suddivisa tra il XXX Corpo d'armata (formato dalla 1° Divisione canadese, dalla 51° Divisione e dalla 231° Brigata Malta) e il XIII Corpo d'armata (composto dalla 5° e dalla 50° Divisione). Al comando di Bernard Law Montgomery, prese terra sul versante ionico nei tratti di costa tra la penisola di Pachino e la piazzaforte di Augusta (tranne i canadesi che sbarcarono più a sud). Due brigate appartenenti alla 1ª Divisione Aviotrasportata furono lanciate dietro le linee italiane per conquistare punti chiave per l’avanzata.
I piani inglesi erano di avanzare rapidamente attraverso la piana di Catania per proseguire, successivamente, verso Messina.
Per poter arrestare l’offensiva nemica, invece, il Comando tedesco organizzò una linea difensiva intorno all'Etna. Qui venne mandata la 1° divisione “Fallshirmjaeger” agli ordini del generale Richard Heidrich.

L'operazione “Fustian”

Con lo scopo di accedere alla piana di Catania Montgomery aveva lanciato, il 13 luglio 1943, l’operazione “Fustian” con l’utilizzo di alianti e paracadutisti; questi erano composti dalla 1° Brigata parà, dal 1° squadrone di genieri e dalla 16° unità aviotrasportata (1.856 uomini in totale). L’obiettivo erano costituito dal ponte Primasole sul fiume Simeto.
Per l’operazione si preparò anche un distaccamento di artiglieria formato da 77 uomini con 10 cannoni controcarro e una ventina di jeep per il trasporto.
I paracadutisti avrebbero dovuto eliminare ogni resistenza nemico col quale fossero venuti a contatto e convergere verso il ponte di Primasole per assicurarsene il possesso.
I velivoli alleati partirono alle 22 dagli aeroporti in Tunisia ma, nonostante i comandanti delle forze navali sapessero del loro arrivo, due aerei vennero abbattuti dalla contraerea amica mentre altri 9 subirono danni tali da doverli farli rientrare alle basi; alla fine 14 aeroplani andarono persi e altri 34 furono seriamente danneggiati.
Alle 22.15 furono lanciati i paracadutisti; la maggior parte atterrò a molti chilometri dai punti stabiliti mentre alcuni gruppi presero terra oltre 30 km a nord di Catania. Quelli della seconda ondata si ritrovarono nella zona presidiata da un battaglione della Fallschirmjäger Division, a nord del ponte; i tedeschi reagirono e costrinsero gli inglesi a ritirarsi verso sud-est verso il ponte.
I britannici riuscirono a radunare circa 150 uomini con i quali lanciare l’assalto al ponte sul Simeto ma, anche se riuscirono a disinnescare le cariche esplosive poste sotto di esso, verso la sera del 14 luglio e dopo combattimenti durati tutta la giornata, furono respinti sulle alture a sud del ponte.
I tedeschi vennero rinforzati da un cannone antiaereo da 88 e un loro assalto costrinse i britannici a ritirarsi ancora più a sud.
Gli attaccanti aspettarono di una brigata della 50a divisione di fanteria e del 44° Reggimento corazzato con i suoi carri armati Sherman, dopo di che riprovarono un nuovo assalto al ponte. Un primo attacco non andò a buon fine e ne venne respinto anche un secondo grazie al fuoco del micidiale cannone da 88 mm.
Solamente l’intervento dei cannoni delle navi da guerra inglesi fece in modo di avere la meglio sui parà tedeschi; questi ultimi subirono un duro bombardamento e persero anche il cannone antiaereo centrato in pieno da un colpo.
Essi, però, continuarono a opporre una tenace resistenza fino al giorno 17, quando il ponte cadde definitivamente in mano inglese; gli uomini del 4° reggimento riuscirono a ritirarsi verso nord mentre quelli del 3° reggimento, dopo aspri combattimenti, si ricongiunsero con altre truppe tedesche giunte a Paternò.

La caduta della Sicilia

Il 20 luglio le truppe dell’Asse erano ormai strette tra l’avanzata americana da ovest e quella britannica da sud e Hube, il comandante del 14° Panzer Korps tedesco, ritirò le proprie unità dalla Sicilia centrale; per di più, il 25 luglio Mussolini venne destituito dal Gran Consiglio del Fascismo e i soldati italiani andarono letteralmente allo sbando smettendo di combattere e lasciando ai soli tedeschi il compito della difesa della Sicilia.
Una volta constatata l’impossibilità di ributtare a mare gli Alleati, i tedeschi ordinarono, con l’operazione “Lehrgang”, l'evacuazione dell'isola e il trasporto del maggior numero possibile di uomini e mezzi in Calabria. Furono i paracadutisti della “Fallschirmjaeger division” a scontrarsi con le unità alleate dando, in questo modo, il tempo alle altre truppe di imbarcarsi.
Gli ultimi reparti dei paracadutisti lasciarono la Sicilia nella notte tra il 16 e il 17 agosto.
Dopo 39 giorni la Sicilia era conquistata e le truppe alleate si preparavano a risalire la penisola, anche se i tedeschi riuscirono a spostare in Calabria gran parte dei loro uomini.
La campagna di Sicilia costò all’Asse 8.600 morti, 20.000 feriti e 140.000 prigionieri di guerra mentre gli Alleati pagarono il prezzo di circa 5.000 morti e 16.000 uomini tra feriti e dispersi.

La campagna in Africa Settentrionale (1943)

Fronte ovest: la battaglia di Passo Kasserine

In Africa settentrionale, sul fronte ovest, la prima battaglia che si svolse tra gli eserciti americano e tedesco fu al Passo Kasserine. Il passo consiste in un varco di tre chilometri di larghezza situato nella catena dell’Atlante, nella zona centro-occidentale della Tunisia.
Le forze che si contrapposero furono, da una parte, l'Afrika Korps (al comando del Feldmaresciallo Erwin Rommel) e la V Panzer Armee (guidata dal generale Hans-Jürgen von Arnim) e, dall’altra, il II Corpo dell'esercito statunitense del maggiore generale Lloyd Fredendall.
Gli americani avevano stabilito una base operativa a Faïd, all’estremità orientale dell’Atlante e, da qui, potevano minacciare le linee di rifornimento di Rommel.
Un’offensiva tedesca fece indietreggiare le linee statunitensi sulle colline permettendo ai nazisti, in questo modo, di controllare tutti i punti di accesso alle pianure costiere. Rommel, insieme ai suoi comandanti, decise di sferrare un attacco verso due basi americane poste aldilà della catena montuosa, in Algeria. Quest’attacco aveva lo scopo di migliorare la situazione dei suoi rifornimenti ed allontanare le truppe statunitensi dai porti tunisini; inoltre, avrebbe potuto accerchiare le truppe alleate che minacciavano la 5° Armata di von Arnim.
L’offensiva scattò alle 4 del 14 febbraio 1943; la 21° Divisione Panzer avanzò verso ovest attaccando e sconfiggendo gli statunitensi presso Sidi Bou Zid; il giorno successivo Rommel conquistò Gafsa. Il 18 i tedeschi, insieme a reggimenti italiani, presero anche Sbeitla. Gli americani, dopo aver perso 2.546 uomini, 103 carri armati, 280 veicoli, 18 cannoni da campo, tre cannoni anticarro e una batteria antiaerea, decisero di stabilire una linea difensiva al Passo di Kasserine.
Il 21 febbraio Rommel mosse all’attacco l'appena formata 10ª Divisione Panzer con l’obiettivo di impossessarsi dei depositi di rifornimenti; nel frattempo la 21ª Divisione si diresse a nord attraverso Sbiba.
Le linee di difesa americane vennero travolte: infatti, i loro carri leggeri “Lee” e “Stuart” non poterono nulla contro i più pesanti ed efficienti Panzer IV tedeschi. La 1° Divisione Corazzata subì gravi perdite. Dopo lo sfondamento i tedeschi si divisero in due gruppi: il primo (il gruppo principale della 10° Divisione) a nord procedette verso Thala mentre il secondo, più a sud, si diresse verso Haidra.
Nonostante la resistenza di piccoli gruppi di soldati americani, il passo di Kasserine ormai era a portata di mano per i tedeschi così come lo era il deposito di rifornimenti di Tébessa. Il passo fu, infatti, conquistato il giorno 20 febbraio da reparti della 10° e della 21° Panzer Division travolgendo le truppe che vi erano state poste a difesa.
Il 21 febbraio la 10ª Divisione era schierata anche appena fuori la cittadina di Thala; se questa fosse caduta, una divisione di fanteria statunitense a nord sarebbe stata tagliata fuori dai rifornimenti mentre una parte della 1ª Divisione Corazzata sarebbe stata accerchiata dalle truppe di Rommel.
La notte tra il 21 e 22 febbraio la linea difensiva di Thala fu, quindi, rinforzata con alcune unità britanniche, francesi e americane; venne schierata anche l’intera artiglieria della 9° divisione di fanteria composta da 48 cannoni. Queste difese ressero quando i tedeschi, il giorno seguente, attaccarono.
Le linee di Rommel ormai erano molto allungate con difficoltà logistiche e, temendo anche un’offensiva degli inglesi da est, egli decise di terminare l’offensiva e di ritirarsi a difesa del caposaldo tunisino. Il 25 febbraio, due giorni dopo un violento attacco aereo americano, il passo di Kasserine fu ripreso dagli statunitensi.
Alla fine gli alleati persero 10.000 uomini contro i soli 2.000 delle forze dell’Asse.
La battaglia di Passo Kasserine dimostrò inequivocabilmente quanto le truppe americane fossero inesperte e mal guidate; infatti, Fredendall venne destituito dal comando e assegnato a un ruolo non operativo per tutto il resto del conflitto. Al suo posto, il 6 marzo, venne nominato Comandante del II Corpo il generale George Patton, con il primario compito di migliorare l’efficienza e il rendimento delle sue truppe.
L’esercito americano apportò anche notevoli cambiamenti riorganizzando le varie unità e dando maggiore autonomia ai comandanti sulle decisioni operative da prendere velocemente in battaglia senza chiedere autorizzazioni all’Alto Comando; venne anche migliorato il supporto dell’artiglieria e quello aereo.

Fronte est:

Dopo la vittoria ad El Alamein gli inglesi inseguirono le truppe dell’Asse in ritirata catturando 230.000 uomini di cui 120.000 italiani. Il 23 gennaio entrarono a Tripoli decretando la fine del dominio italiano in Libia.
Per contrastare le forze britanniche che arrivavano da est Rommel decise di concentrare le sue unità al confine tra Tunisia e Libia; queste si attestarono sulla “linea del Mareth”, un sistema di fortificazioni lungo 35 chilometri (che si snodava tra Djebel Dahar e il mare) costruito dai francesi tra il 1934 e il 1939 a protezione di eventuali offensive italiane dalla Libia.
Dopo aver sconfitto a ovest gli americani al passo di Kasserine, il 6 marzo Rommel, nonostante l’inferiorità in uomini e mezzi, attaccò anche ad est lungo la parte sud della linea del Mareth (operazione “Capri”); le comunicazioni dell’Asse, però, erano regolarmente intercettate dagli inglesi e, grazie ad esse, Montgomery non si fece trovare impreparato causando gravi perdite ai tedeschi.
Rommel, in seguito, si ammalò e tornò in Europa; il suo posto fu preso da Von Arnim.
I britannici, a loro volta, attaccarono il 20 marzo 1943 (operazione “Pugilist”) preceduti da un pesante bombardamento sulle postazioni nemiche. Dopo aspri combattimenti, Von Arnim ritirò i suoi uomini sull’altopiano di Akarit; il ripiegamento venne fatto con ordine e l’Asse non perse uomini e mezzi. Gli inglesi, però, incalzarono e, nei primi giorni di aprile, gli italo-tedeschi si attestarono a Enfidaville, in una posizione dove ripide alture restringono la fascia costiera.

Le ultime fasi

Intanto a ovest gli americani occuparono Gafsa (18 marzo), sconfiggendo la brigata italiana “Centauro”, e poi si congiunsero agli inglesi sulla strada per Gabes (7 aprile); ormai le truppe dell’Asse erano schierate su un fronte di 215 km che andava da Capo Serrat ad Enfidaville ed erano in schiacciante inferiorità numerica.
Dopo alcuni attacchi sferrati dagli anglo-americani nel mese di aprile, l’offensiva finale (operazione “Vulcano”) iniziò i primi giorni di maggio del 1943; il 7 gli inglesi entrarono a Tunisi e gli americani a Biserta. Alcuni reparti italiani lottarono strenuamente fino al giorno 11 in cui si arresero definitivamente.
Il 13 maggio il generale Messe firmò la capitolazione ufficiale; più di 250.000 uomini tra italiani e tedeschi deposero le armi.
La guerra in Africa era finita.

Il fronte russo nel 1943

La resa di Paulus a Stalingrado

Agli inizi del 1943 sei armate sovietiche aumentavano sempre più la pressione sulla sesta armata di Paulus circondata a Stalingrado. I tedeschi ricevono solo una minima parte dei rifornimenti necessari solamente perché controllano ancora due piste di atterraggio.
Il comandante russo dell’intero fronte del Don, Rokossovskij, l’8 gennaio inviò un ultimatum al comandante tedesco Paulus ma questi rifiutò la resa dato che non voleva contraddire gli ordini di Hitler di resistere ad ogni costo.
I viveri, però, erano diventati ormai insufficienti e le condizioni fisiche dei soldati ne risentirono.
A fine gennaio, dopo che la sua armata era stata divisa in due tronconi dagli attacchi nemici, Paulus chiese al Fuhrer l’autorizzazione ad arrendersi ma questi rifiutò ancora categoricamente; questa volta, considerato che era pura follia resistere ancora, ignorò l’ordine e, il 2 febbraio, si arrese insieme al suo stato maggiore e ad altri 50 generali. I circa 90.000 sopravvissuti all’accerchiamento dovettero marciare a piedi verso la Siberia e molti di loro morirono di fame o assiderati; ne sopravvissero solo 6.000.

I sovietici all’attacco

All’inizio del 1943 i generali sovietici, sfruttando il momento di difficoltà dei tedeschi, volevano respingere i loro nemici, con una grande offensiva, fino al fiume Dniepr.
Mentre procedeva la liberazione del Caucaso, il 30 gennaio i russi diedero il via a due operazioni, una denominata “Galoppo” diretta proprio verso il Dniepr e l’altra chiamata “Stella” diretta verso il Mar d’Azov. Erano anche all’offensiva in altri settori: sul fronte di Leningrado, su quello di Vjazma e nel settore di Orel e Smolensk.
All’inizio di questa offensiva generale, per cogliere alle spalle i tedeschi che cercavano di portare aiuto all’armata intrappolata a Stalingrado, i russi attaccarono anche nel settore dove era schierata l’8° armata italiana che, con la minaccia concreta di essere accerchiata, fu costretta a ripiegare battendosi duramente per cercare di raggiungere le forze tedesche sul fiume Donec; iniziò, per gli italiani, la tragica ritirata di 300 chilometri a piedi attraverso la steppa.
I russi avanzarono per circa 500 km a ovest di Stalingrado annientando anche il contingente ungherese. L’8 febbraio presero Kursk e il 16 Kharkov. Questa direttrice di attacco sovietica, sferrata in direzione di Rostov, permise, però, ai tedeschi di far rientrare le truppe di Von Kleist dal Caucaso, che già da più di un mese erano sulla difensiva.

Febbraio - Marzo 1943: riconquista tedesca di Kharkov.

I tedeschi, intanto, avevano fatto affluire dalla Francia nuovi reparti corazzati e, con l’apporto di essi, iniziarono una controffensiva avente lo scopo di stabilizzare l’intero fronte orientale annientando le forze sovietiche.
Il 19 febbraio Manstein, uno dei migliori comandanti tedeschi che durante i mesi precedenti aveva splendidamente organizzato la ritirata dal Caucaso, passò all’offensiva; dopo aver riorganizzato i suoi reparti, comprendenti anche divisioni corazzate delle Waffen SS, attaccò i sovietici, cogliendoli completamente di sorpresa, e li costrinse ad abbandonare Kharkov. I nazisti arrivarono alla linea del Donec e del Mius.

La battaglia di Kursk (operazione “Zitadel”)

Agli inizi della primavera del 1943 la linea del Fronte Orientale aveva, in corrispondenza del settore di Kursk, un grosso saliente in cui erano presenti le forze sovietiche; questa, per loro, era pericoloso dato che esse sarebbero potuto essere attaccate dai tedeschi con una manovra a tenaglia.
Nel luglio, infatti, i nazisti, in previsione di migliori condizioni meteorologiche rispetto al terribile inverno passato, organizzarono una grossa controffensiva (denominata operazione “Zitadel”), proprio nella zona di Kursk, per rompere il saliente nemico e distruggere le grandi forze che i russi vi avevano concentrato.
Questo saliente si estendeva in profondità nelle linee tedesche per più di 100 Km con una larghezza di 150; i tedeschi pensavano che, in esso, vi fossero schierati un milione di soldati sovietici che contavano di accerchiare con un doppio attacco da nord e da sud.
L'attacco, che in un primo momento era stato pianificato per la primavera del 1943, venne rinviato ai primi di luglio per dar tempo alle formazioni tedesche di essere integrate con nuovi carri armati tra cui il “Panther D” e il “Tiger I”, gli unici a poter tenere testa ai T-34 nemici. Le forze corazzate naziste, infatti, erano uscite molto indebolite dalle campagne precedenti ma Guderian e Speer erano riusciti a incrementare la produzione di carri armati e di equipaggiamento.
I sovietici, però, tramite loro spie in Svizzera, conoscevano perfettamente le intenzioni nemiche e avevano fortificato la zona con nuove linee difensive, cinquemila chilometri di trincee e centinaia di migliaia di mine.

L’attacco

L’attacco tedesco doveva svolgersi contemporaneamente da nord e da sud. A nord vi era la nona armata, al comando del generale Walther Model, che era composta da sette divisioni corazzate, due di Panzergrenadier e nove di fanteria. A sud era schierata la quarta armata, sotto la guida del generale Hermann Hoth, formata da dieci divisioni corazzate, una di Panzergrenadier e sette di fanteria. Alle forze naziste si opponevano 11 armate sovietiche con il supporto di circa 20.000 pezzi d'artiglieria.
A nord Model attaccò con otto divisioni di fanteria e solamente una corazzata (le altre le teneva di riserva per lanciarle oltre il saliente una volta sfondato il fronte); i russi, però, opposero una tenace resistenza e i campi minati crearono grossi ostacoli alla fanteria di Hitler; alla fine della prima giornata i tedeschi erano avanzati di soli sette chilometri e non erano entrati in possesso di nessun punto chiave.
Il 6 luglio Model impiegò anche le divisioni corazzate di riserva ma i sovietici tennero le loro posizioni. Tre giorni dopo il comandante tedesco interruppe gli attacchi.
A sud Hoth decise, invece, di lanciare all’offensiva tutte le sue forze fin da subito. In questo settore, nonostante grosse perdite, i tedeschi riuscirono a sopraffare la prima linea sovietica, a passare il fiume Donec e a stabilire una testa di ponte. L’offensiva nazista proseguì con decisione e il 9 luglio superarono anche i fiumi Pena e Psel.
Il giorno 12 tre divisioni di SS iniziarono l’attacco per la conquista della città di Prohorovka. I loro 200 carri armati si scontrarono con gli oltre 800 della 5°armata corazzata russa; lo scontro fu durissimo e proseguì per tutta la giornata. Alla fine, i tedeschi furono costretti a cedere.

La fine di “Zitadel”

Il 10 luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia; per evitare che l’isola fosse persa, causando la caduta di Mussolini e l’uscita dell’Italia dall’Asse, Hitler trasferì alcune divisioni (tra cui la “Leibstandarte”) al Brennero indebolendo quindi la zona del saliente di Kursk. Qui, due giorni dopo, i sovietici scatenarono un’offensiva contro la città di Orel conquistandola e penetrando nelle linee difensive tedesche; la presa di Orel era, per i sovietici, di grande importanza strategica in quanto era la base dalla quale i nazisti avevano minacciato Mosca fin dal 1941.
Da quel momento i tedeschi non ebbero più la possibilità di riprendere l’iniziativa e, il 13 luglio, Hitler decretò la fine dell’operazione “Zitadel” che si era risolta in uno scacco completo. Egli, a Kursk, perse circa il 60% delle sue forze corazzate schierate sull’intero Fronte Orientale.

I sovietici arrivano al Dniepr

I sovietici passarono all’offensiva su tutto il Fronte.
In agosto attaccarono nel settore di Belgorod e respinsero i tedeschi nonostante questi si battessero con tenacia e infliggessero gravi perdite. Il 5 i russi liberarono Orel, il 23 vinsero la quarta battaglia di Kharkov e i primi di settembre sfondarono il fronte sul Mius.
Solamente a questo punto Hitler accettò, su consiglio dei suoi generali, un ripiegamento generale sul fiume Dniepr.
Nonostante il piano dei nazisti di costituire una salda linea difensiva sul fiume, i sovietici riuscirono subito a creare numerose teste di ponte che utilizzarono come basi di partenza per lanciare le loro truppe verso ovest. A nord l’Armata rossa entrò il 17 settembre a Brjansk e il 25 a Smolensk, in Ucraina gli uomini di Stalin liberarono a Kiev il 6 novembre e, più a sud, entrarono a Dnepropetrovsk e Zaporoze.

Gli ultimi mesi del 1943

Nei mesi di novembre e dicembre del 1943 i tedeschi, con l‘apporto di nuove truppe provenienti da ovest, contrattaccarono le truppe sovietiche che avevano liberato Kiev mettendole in difficoltà.
Alla fine del 1943 la netta superiorità dell’Armata Rossa rispetto alla Wehrmacht era evidente sia in termini di uomini che di mezzi, anche se i tedeschi conservavano ancora il controllo su vaste regioni come la Crimea.

La battaglia di Stalingrado

Operazione “Fall Blau”

Per riprendere l’iniziativa sul fronte orientale, dopo l’arresto dovuto agli attacchi dell’Armata Rossa durante l’inverno del 1941, Hitler, il 5 aprile 1942, mise a punto la cosiddetta “Operazione Fall Blau” (cascata azzurra): questo piano prevedeva un’offensiva tedesca nella Russia meridionale che doveva occupare il bacino del Volga e puntare dritta ai pozzi petroliferi del Caucaso.
L’operazione doveva scattare i primi di maggio ma la tenace resistenza sovietica a Sebastopoli la fece rinviare di un mese. I nazisti conseguirono subito facili successi e occuparono le regioni di Kharkov, Rostov e Voronez (quest’ultima cadde il 9 luglio). Ad agosto la 6° armata tedesca giunse nella grande ansa del Don ed il giorno 23 il 14° Corpo Panzer raggiunse Stalingrado.


La conquista di Stalingrado (l’odierna Volgograd) era, per Hitler, importantissima dato che si trovava in una posizione strategica sulla strada per il Caucaso e i suoi ricchi giacimenti di petrolio. Si estendeva per 40 chilometri lungo la riva occidentale del Volga e, in essa, vi erano tre enormi complessi industriali: le officine “Barricate rosse” dove si producevano cannoni, le “Scercinski” per i carri armati e le “Ottobre Rosso” per le armi portatili e le munizioni. Inoltre il Fuhrer riteneva la sua conquista fondamentale anche dal punto di vista simbolico; Stalingrado era una delle maggiori città industriali dell’Unione Sovietica e, dato che portava anche il nome del suo leader, la sua occupazione avrebbe rappresentato la sconfitta morale del bolscevismo.

L’inizio della battaglia

L’Alto Comando della Wehrmacht aveva elaborato un piano di accerchiamento per distruggere la 62° e la 64° Armata sovietica che si contrapponevano ai tedeschi davanti a Stalingrado.
Il 17 luglio 1942 la 6° Armata nazista lanciò l’assalto alla linea del Don ma i russi riuscirono ad arrestarne l’avanzata; Hitler inviò in aiuto altri 3 corpi d’armata (di cui uno corazzato) ma, in un mese, le sue truppe avanzarono soltanto di una sessantina di chilometri.
Solamente verso la fine di agosto il maresciallo Paulus, comandante della 6° Armata, riuscì ad arrivare al Volga tagliando, in questo modo, i rifornimenti vitali alla città che arrivavano attraverso di esso; i sovietici sfuggirono ripetutamente ai tentativi nemici di chiuderli in una sacca e si ritirarono tra le macerie del centro abitato dove, fin dall’inizio dell’anno, erano state costruite numerose opere difensive come fossati, trincee coperte, bastioni e fortini.
Fin dall’inizio dell’assedio alla città l’accanita resistenza russa causò gravi perdite ai tedeschi: nei soli primi dieci giorni di settembre ebbero 24.000 morti e persero 500 carri armati.
La Luftwaffe scaricò su Stalingrado centinaia di migliaia di bombe effettuando continue incursioni specialmente con i bombardieri in picchiata “Stuka”; furono presi di mira, in particolare, i complessi industriali e i depositi da cui si rifornivano le truppe russe.
Da metà settembre in poi i combattenti si trasformarono in una grande battaglia strada per strada. I tedeschi impiegarono un gran numero di uomini e carri armati supportati continuamente dai bombardamenti dell’aviazione.
Occuparono il centro cittadino e arrivarono anche a 800 metri circa dal quartier generale di Vasilij Ivanovic Cujkov, comandante della 62° Armata sovietica, ma i difensori continuarono a resistere. La città fu ridotta a un cumulo di macerie ma queste servirono agli uomini di Stalin per ripararsi, nascondersi e contrattaccare i tedeschi. I russi avevano, poi, alle loro spalle, reparti di uomini dell’NKVD per impedire che i loro soldati si arrendessero o disertassero. I sovietici sfruttarono ogni possibile nascondiglio per piazzarvi mortai e mitragliatrici: gli scheletri delle officine, i crateri delle bombe, le macerie degli edifici. Nei vicoli stretti della città, usando le bottiglie molotov, riuscivano a tendere imboscate ai panzer tedeschi che poco potevano fare per opporsi in un teatro di quel genere.
Alla fine di settembre Paulus lanciò un nuovo attacco, su un fronte di 4 chilometri, con nove divisioni di cui due corazzate; riuscirono ad avanzare lentamente e solo a metà novembre raggiunsero il Volga, anche se solamente in un settore largo 500 metri. Due mesi dopo il fiume iniziò a gelare e divenne non più attraversabile per le comuni barche viste le grosse lastre di ghiaccio. Paulus attese proprio queste condizioni per sferrare un nuovo assalto richiamando tutte le forze disponibili. Ormai il settore russo sulla riva sinistra del fiume era stretto per circa otto chilometri lungo il Volga ma, da esso, distava al massimo 300 metri.
In questa situazione di estrema difficoltà, però, i sovietici reagirono.

La controffensiva sovietica

Ormai era alle porte il terribile inverno russo e il 17 novembre iniziò a nevicare. Due giorni dopo il generale Zukov, dopo avere concentrato nel settore del Don un gran numero di cannoni, mortai, aerei e carri armati, ordinò all’Armata Rossa il grande contrattacco con una manovra a tenaglia a nord e a sud della città; dall’oriente erano anche arrivate nuove divisioni corazzate in maggioranza siberiane ed equipaggiate a dovere per combattere alle temperature del rigido inverno. Lo scopo era di sfondare il fronte e di accerchiare la 6° Armata di Paulus presente a Stalingrado.
L’offensiva sovietica (operazione “Urano”) si concentrò in due zone: la prima a circa 160 chilometri a nord-ovest di Stalingrado (al comando di Rokossovkij e di Vatutin) e la seconda a 70 chilometri a sud (alla guida di Yeremenko).
L’offensiva partì il 19 novembre 1942 sul settore della prima zona dopo un bombardamento effettuato con 3.500 pezzi d’artiglieria. Nel tratto di fronte investito dall’attacco vi erano forze rumene che erano comprese tra le italiane a nord e le tedesche a sud; il tracollo dei rumeni (la sconfitta della loro 3° Armata fece catturare ai sovietici oltre 27.000 prigionieri) coinvolse anche le truppe italiane dell’ARMIR.
A sud, intanto, i russi avanzarono per incontrare, con un movimento a tenaglia, le truppe provenienti da nord (nei pressi di Kalach) e chiudere così, in una sacca, l’intera 6° Armata nazista.
I 250.000 tedeschi chiusi a Stalingrado non riuscivano ormai ad avere più nessun tipo di rifornimento dato che anche i loro aerei da trasporto erano quasi sempre abbattuti dalla contraerea sovietica; dovevano fare i conti con la mancanza di cibo, carburante e divise invernali per fronteggiare il freddo.
Paulus, anziché provare a uscire dalla sacca in cui stava finendo, non si oppose all’ordine perentorio di Hitler che gli imponeva di non ritirarsi e di difendersi fino all’ultimo uomo.
Per liberarlo dall’accerchiamento, il comando della Wehrmacht cercò di mandarle incontro la 4° Armata corazzata tedesca (quest’ultima proveniente dalla Francia) e la 4° Armata rumena (oltre ai resti della 3°) al comando del maresciallo Von Manstein; il 12 dicembre 1942 l’attacco (operazione “Winter Storm”) fu sferrato vicino a Kotelnikovo, a sud-est del Don, ma i sovietici avevano avuto tutto il tempo per rafforzare le difese della zona facendovi confluire numerosi uomini e mezzi.
Von Manstein arrivò a soli 30 chilometri dalle truppe di Paulus ma poi dovette mettersi sulla difensiva, anche perché Hitler negò a quest’ultimo l’ordine di attaccare, contemporaneamente, proprio in direzione dei corazzati di Von Manstein.
Ogni speranza di liberare la 6° Armata tedesca venne meno e, durante il mese di dicembre, l’Asse perse anche la 3° e la 4° Armata rumena e l’8° italiana distrutte dai sovietici.
Con la nuova offensiva russa denominata “Piccola Saturno” il fronte tedesco fu ulteriormente allontanato dalla sacca di Stalingrado e anche Von Manstein fu costretto ad allontanarsi dalla città.

L'invasione dell'URSS (Operazione Barbarossa)

Nel 1939 Germania e Unione Sovietica, in vista dell’attacco tedesco alla Polonia, avevano stipulato tra di loro il patto di non aggressione (firmato dai ministri degli esteri Molotov e Von Ribbentrop); con questo accordo i due Paesi si impegnarono a non attaccarsi reciprocamente mentre, in seguito, veniva anche decisa la spartizione dei territori polacchi, dei Paesi baltici e della Bessarabia.
La guerra tra questi due Paesi era, comunque, soltanto rinviata.

I motivi dell’attacco tedesco

L’odio di Hitler per il bolscevismo era molto profondo fin dalla fine del primo conflitto mondiale. La dottrina del suo Partito Nazionalsocialista si basava sul cosiddetto “lebensraum”, lo “spazio vitale”; esso prevedeva l’annessione tedesca dei territori dell’Europa orientale che erano abitati, secondo Hitler, dagli “untermenschen”, cioè da persone che il Fuhrer definiva sub-umane e di razza inferiore. Egli voleva insediare popolazione germanica nella Russia occidentale e deportare i russi in Siberia o ridurli in schiavitù. Considerava la popolazione sovietica composta solo da criminali adatti come forza lavoro per le forze armate naziste.
Per la Germania il controllo di questi territori era fondamentale anche per il fatto che l’Ucraina era ricca di risorse agricole e, soprattutto, nelle zone del Caucaso vi erano importantissimi giacimenti petroliferi.
Intanto, nell’Urss, nella seconda metà degli anni ’30 Stalin aveva eliminato tantissimi generali e ufficiali dell’Armata Rossa nel timore di un colpo di stato militare; gli uomini della polizia segreta (NKVD, Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) arrestarono e giustiziarono 3 marescialli su 5 (tra cui Tukachevsky, il principale fautore della guerra corazzata), 13 generali d’armata su 15, 8 ammiragli su 9, 50 generali di corpo d’armata su 57, 154 generali di divisione su 186, 16 commissari d’armata su 16, 25 commissari di corpo d’armata su 28 e circa 35.000 ufficiali dell’esercito.
Inoltre, da un punto di vista strettamente militare, le forze armate sovietiche non potevano sicuramente paragonarsi qualitativamente a quelle germaniche; i loro carri armati erano nettamente inferiori ai Panzer (i nuovi modelli KV1 e T-34 non erano ancora in produzione) e anche i caccia Polikarpov I-16 non reggevano assolutamente il confronto con i Messerschmitt Bf-109.
Hitler considerava, quindi, l’Unione Sovietica molto debole da un punto di vista militare e sosteneva che “dobbiamo solo tirare un calcio alla porta e l’intera struttura, marcia, crollerà”.
Il Fuhrer era molto fiducioso nell’esito dell’attacco; si aspettava una vittoria lampo come quella in Francia e credeva che tutto si sarebbe risolto entro l’inverno; infatti, le sue truppe non vennero nemmeno equipaggiate con vestiario adatto per affrontare il terribile inverno russo, errore che si sarebbe rivelato molto grave nel prosieguo della campagna. I suoi generali avvertirono Hitler dei rischi che si sarebbero corsi dovendo combattere su due fronti ma il Fuhrer era molto sicuro si sé e dell’invincibilità delle sue forze armate ritenendo che la vittoria fosse a portata di mano.
Per preparare l’offensiva la Germania spostò 2,5 milioni di uomini (per un totale di 118 divisioni, 17 delle quali corazzate) vicino alla frontiera con l’Urss; furono anche accumulate grosse quantità di materiali per garantire i rifornimenti alle proprie truppe.
Stalin, nonostante queste prove evidenti e le continue segnalazioni che gli giungevano dai servizi segreti (una sua spia in Giappone, Richard Sorge, gli comunicò addirittura la data esatta dell’attacco), non credeva che Hitler avesse potuto scatenare un’offensiva contro di lui; infatti, pensava che i nazisti non sarebbero avanzati fino a quando la Gran Bretagna non si fosse arresa. Inoltre riteneva che erano gli stessi inglesi a volere uno scontro tra lui e la Germania, teoria che quest’ultima cercava di avvalorare facendo credere ai sovietici di simulare un attacco all’Urss solamente per ingannare i britannici.

Gli schieramenti

Il piano di attacco tedesco prevedeva l’impiego di tre gruppi d’armata.
Il primo (gruppo d’armate Nord, agli ordini del feldmaresciallo Ritter Von Leeb) comprendeva sette divisioni di fanteria (di cui tre motorizzate)e tre divisioni corazzate che formavano il 4° Gruppo Panzer guidato dal generale Erich Hoepner; il supporto aereo era garantito dalla 1° Flotta Aerea del generale Koller. Questo gruppo aveva l’obiettivo di attraversare i tre Paesi baltici e conquistare Leningrado (l’odierna San Pietroburgo).
Il secondo (gruppo d’armate Centro, agli ordini del feldmaresciallo Fedor Von Bock) si sarebbe diretto verso Mosca ed era composto da 41 divisioni di fanteria, una di cavalleria, sei motorizzate e nove corazzate; queste ultime erano divise tra il 2° Gruppo del generale Guderian ed il 3° del generale Hoth. L’appoggio aereo era fornito dalla 2° Flotta Aerea del feldmaresciallo Kesserling.
Il terzo (gruppo d’armate Sud, agli ordini del feldmaresciallo Gerd Von Rundstedt) aveva il compito di conquistare l’Ucraina e la Crimea, attraversare il fiume Dniepr e proseguire verso Stalingrado e i campi petroliferi del Caucaso. Comprendeva 52 divisioni di fanteria (fra cui 4 motorizzate e 4 reparti di montagna), 15 divisioni rumene, due ungheresi e due italiane; inoltre schierava il 1° Gruppo Panzer affidato al generale Von Kleist e suddiviso in 5 divisioni. L’aviazione era presente con la 4° Flotta Aerea al comando del generale Lohr.
Alle forze germaniche i sovietici contrapponevano 160 divisioni di fanteria, 30 di cavalleria e 35 brigate corazzate. Al nord erano guidati dal maresciallo Voroshilov, al centro dal maresciallo Timoshenko e, al sud, dal maresciallo Budenny.
Le forze tedesche avrebbero dovuto combattere su un fronte lunghissimo che andava dal Baltico al Mar Nero, in un territorio povero di strade e di ferrovie e dovendo affrontare grandi problemi di rifornimento vista l’enorme distanza dai punti di partenza.

L’offensiva tedesca

L’offensiva tedesca partì alle 3.15 del 22 giugno 1941, lo stesso giorno in cui, nel secolo prima, ad attaccare la Russia fu Napoleone.
Durante la prima settimana la Luftwaffe mise praticamente fuori combattimento l’aviazione russa; solamente nelle prime quattro giornate distrussero più di 7.000 velivoli nemici.
L’avanzata tedesca fu subito travolgente; grazie alla velocità dei gruppi corazzati i nazisti effettuavano grandi accerchiamenti con cui vennero annientate decine di divisioni sovietiche e catturati migliaia e migliaia di prigionieri; le truppe di Stalin erano mal sistemate e non era stato predisposto un efficace piano di difesa.
Al nord i due corpi corazzati che formavano il 4° Gruppo Panzer, il LVI di Von Manstein e il XLI di Reinhardt, entrarono negli Stati baltici e raggiunsero rapidamente il fiume Dvina conquistando intatto il ponte a Dvinsk.
Avanzando, Reinhardt si diresse verso Pskov e l’Estonia mentre Von Manstein puntava su Novgorod entrando a Luga il 17 luglio. A questo punto Hitler, considerata la grossa distanza venutesi a formare tra i suoi carri armati e la fanteria, ordinò ai primi di fermarsi e di aspettare le truppe; questa decisione diede il tempo ai difensori di Leningrado di organizzarsi e di prepararsi all’assedio.
Al centro l’obiettivo iniziale dei tedeschi era Minsk; i due gruppi corazzati di Hoth e Guderian effettuarono un attacco a tenaglia (partendo, il primo, dalla Prussia orientale e, il secondo, poco a sud di Brest-Litovsk) destinato a chiudersi, il 27 giugno, proprio intorno alla capitale bielorussa; le forze russe vennero chiuse in una sacca intorno a Bialystok e i tedeschi fecero 300.000 prigionieri distruggendo anche circa 3.000 carri armati nemici. I panzer avanzarono e, dopo aver preso Minsk, raggiunsero il fiume Beresina; in soli sei giorni avevano percorso 650 km! L’11 luglio attraversarono il fiume Dniepr e, cinque giorni dopo, entrarono a Smolensk. In questa zona, però, la resistenza russa fu tenace e tenne impegnati i tedeschi fino a metà settembre.
Al sud il Gruppo d’Armate di Von Rundstedt avanzò attraverso la Galizia e l’Ucraina; in questo settore il Gruppo Panzer di Von Kleist si scontrò, il 25 luglio presso Brody, con sei corpi meccanizzati sovietici e, dopo una battaglia di 4 giorni, i tedeschi riuscirono ad avere la meglio. A metà luglio una colonna puntava su Kiev mentre un’altra si dirigeva verso Odessa attraverso la Bessarabia. Il 19 agosto Von Kleist raggiunse il Dniepr nella zona della diga di Zaporozhye ma venne respinto. Hitler riteneva che fosse prioritario impadronirsi definitivamente dell’Ucraina dato che era ricca di grano; ordinò, quindi, al 2° Gruppo di Guderian di andare verso sud a dare man forte a Von Kleist. Dopo che, il 5 settembre, vennero catturati 667.000 soldati sovietici, il giorno 19 Kiev capitolò.
Il maresciallo Budenny fu rimosso dal suo comando e sostituito con il maresciallo Semen Timoshenko.
Dopo che la Wehrmacht oltrepassò i fiumi Dniepr e Dvina, Stalin decise di spostare le industrie pesanti il più indietro possibile; gli impianti di produzione vennero smontati, caricati sui treni, portati oltre gli Urali, in piena Asia centrale, e qui rimontati.
Alla fine di settembre 1941 Hitler riorganizzò le forze presenti sul fronte orientale; alle armate centrali furono riassegnati il 2° Gruppo Panzer di Guderian (di ritorno da Kiev), il 3° di Hoth (rientrante dal nord) e venne aggiunto il 4° di Hoepner (lasciando l’assedio di Leningrado alla fanteria e all’artiglieria). A Von Manstein venne assegnato un nuovo incarico sul fronte Sud.
Il 30 settembre Hitler diede ordine di riprendere l’avanzata su Mosca dando il via all’operazione “Tifone”.
Una settimana dopo la 2° Divisione Panzer occupò Orel e, subito dopo, Guderian si diresse velocemente verso nord per congiungersi con la 2° armata di Von Weichs e chiudere i sovietici in una sacca intorno a Bryansk. Anche il 3° e il 4° Gruppo Panzer si ricongiunsero accerchiando gli avversari intorno a Vyazma e catturando un gran numero di prigionieri, pezzi di artiglieria e carri armati.
Nel frattempo, a nord, iniziò l’assedio di Leningrado, che, alla fine, durerà 900 giorni. Oltre il circolo polare artico, le forze finlandesi e tedesche cercarono di aprirsi la strada per Murmansk ma non andarono mai oltre il fiume Litsa.
A sud le forze di Hitler si diressero verso il Mar d’Azov seguendo tre direzioni: la 6° Armata di Von Reichenau entrò a Kharkov, la 17° di Von Stulpnagel si diresse verso Poltava e l’11° di Von Manstein occupò l’intera penisola della Crimea (ad eccezione della fortezza di Sebastopoli che resistette fino al luglio 1942).
Intanto la 1° Armata Panzer di Von Kleist avanzò verso est in direzione di Rostov per giungere poi nel Caucaso. Il 21 novembre i tedeschi conquistarono la città ma le loro linee di rifornimento si erano allungate tantissimo esponendoli, sui fianchi, ai contrattacchi russi; una settimana dopo un’armata sovietica li attaccò riuscendo a ricacciarli fuori Rostov. Hitler ordinò di non ritirarsi ma Von Rundstedt lo ignorò, decisione che gli costò il comando del Gruppo d’Armate Sud. I tedeschi si ritirarono fino alla linea del fiume Mius riportando la loro prima importante sconfitta della guerra.
Intanto le condizioni ambientali peggiorarono; verso la fine di ottobre vi furono grandi piogge e le strade si trasformarono in piste di fango nelle quali si incagliavano i mezzi tedeschi. Le difficoltà per gli attaccanti aumentarono quando iniziò a nevicare e la temperatura si abbassò bruscamente; i soldati, infatti, non avevano abbigliamento invernale e, quindi, seri problemi a combattere.
A capo delle armate sovietiche era stato nominato il maresciallo Georgi Zukov, proveniente dal settore di Leningrado; alle sue dipendenze vi erano due generali che risulteranno tra i migliori dell’Urss: Ivan Konev e Andrei Yeremenko.

La battaglia di Mosca

A metà novembre i tedeschi provarono ad accerchiare Mosca e i panzer arrivarono fino a trenta chilometri dalla città, giungendo anche al capolinea dei tram. I comandanti volevano fermare l’avanzata per fare riposare i propri soldati (sfiniti dalle marce e dai continui combattimenti) e dotarli di equipaggiamento invernale ma Hitler, dopo furibonde discussioni, rifiutò, sollevando, addirittura, dal comando tutti quelli che non erano d’accordo con lui.
I mezzi tedeschi avevano bisogno di manutenzione e Guderian riferì che, dei suoi 600 carri armati con cui aveva iniziato l’invasione, ne erano utilizzabili solamente una cinquantina. Inoltre, anche i gruppi di partigiani sovietici nelle retrovie si fecero sempre più intraprendenti minacciando continuamente i rifornimenti nemici.
Proprio quando i nazisti erano praticamente arrivati a Mosca, il 6 dicembre 1941 Zukov lanciò la prima controffensiva russa.

Controffensiva sovietica: inverno 1941

Questa controffensiva fu condotta dai rinforzi sovietici (organizzati in 10 armate per un totale di circa 100 divisioni) che, nel frattempo, erano arrivati dalla Siberia e dal confine con il Giappone. Queste truppe, ottimamente equipaggiate per affrontare il freddo, erano di stanza al confine russo-nipponico ma Stalin stipulò un patto di non aggressione con il Sol Levante (che avrebbe, invece, attaccato il sud-est asiatico e le isole del Pacifico) consentendogli, quindi, di poterle trasferire a ovest.
Questi rinforzi, supportati dai carri armati T-34 e dai lanciarazzi “Katiuscia”, il 6 dicembre 1941 attaccarono i tedeschi schierati intorno a Mosca. L’offensiva investì il 2° Gruppo Panzer di Guderian facendolo indietreggiare attraverso Uzlovaya verso Sukhinichi; la successiva decisione presa da Guderian di ritirarsi per evitare l’accerchiamento gli costò il posto: quindici giorni dopo venne destituito da Hitler.
I sovietici attaccarono anche la 4° Armata di Von Kluge cercando di accerchiarla e di distruggerla nella sua posizione a ovest di Mosca. Von Kluge, il 18 dicembre, prese il posto di Von Bock (dimessosi per motivi di salute) al comando del Gruppo d’Armate Centro.
Nella seconda metà di dicembre furono rimossi dal loro incarico, a causa del loro non condividere più le decisioni di Hitler, Von Brauchtisch (Comandante in Capo dell’Esercito), Von Rundstedt, Hoepner e Von Leeb.
A Natale, dopo aver subito notevoli perdite, le forze di Von Kluge erano indietreggiate fino alla linea Rzhev-Vyazma-Bryansk.
Un secondo attacco sovietico fu sferrato a fine gennaio 1942 alla congiunzione tra i gruppi d’armate nord e centro; l’offensiva doveva procedere su due direzioni per convergere a Smolensk ma i tedeschi riuscirono a mantenere distanti tra loro le formazioni sovietiche e ad effettuare una parziale ritirata su posizioni più favorevoli alla difensiva.
A sud i sovietici avanzarono fin sul fiume Donets nei pressi di Izyum formando un cuneo profondo un centinaio di chilometri; verso la fine dell’inverno, però, i tedeschi contrattaccarono e isolarono i russi nella seconda battaglia di Kharkov.

Don, Volga e Caucaso: estate 1942

Nel giugno 1942 i tedeschi, dopo la battaglia di Voronezh, avanzarono verso sud-est seguendo il fiume Don; l’obiettivo era, dopo aver attraversato il Don e il Volga, penetrare nel Caucaso verso i pozzi petroliferi. Il 24 luglio Rostov fu riconquistata.
La 6° Armata di Paulus si diresse verso Stalingrado; il 23 agosto raggiunse il Volga e la città ma qui la battaglia si trasformò in un logorante combattimento casa per casa dato che la resistenza sovietica (consistente nella 62° Armata comandata da Vasilij Ivanovic Cujkov) si era rafforzata.
Nel Caucaso un gruppo d’armate, comandato da List, doveva occupare in successione, secondo i piani, la costa orientale del Mar Nero, i campi petroliferi di Maikop, la città di Grozny e il settore di Baku, sulle rive del Mar Caspio.
Il compito era affidato alla 1° armata corazzata di Von Kleist composta da 15 divisioni. Superò il Don e, dopo che il 5 agosto giunse a Stavropol, il 9 arrivò a Maikop trovando, però, i pozzi petroliferi completamente distrutti. La colonna principale, che aveva come obiettivo Baku, si trovava a circa 500 chilometri dalla città ma non riuscì a proseguire oltre; i nazisti, al massimo della loro penetrazione, arrivarono ai piedi del Caucaso ma qui si fermarono.
La resistenza sovietica, infatti, si fece più tenace e rinforzata con numerose truppe inviate per ferrovia lungo la riva occidentale del Mar Caspio; inoltre, a Kleist furono sottratte forze destinate al settore di Stalingrado.
I tedeschi, comunque, continuarono ad attaccare e il 2 novembre conquistarono Nal’cik, anche se questa fu la loro ultima vittoria.
Arrivò il terribile inverno russo e i sovietici, piano piano, presero l’iniziativa; nelle prime settimane di novembre, alla periferia di Ordzhonikidze, la 13° Divisione Panzer fu sconfitta e le truppe costrette alla ritirata.

mercoledì 7 aprile 2010

Le battaglie sui mari (1942, fronte del Pacifico)

L’affondamento della “Prince of Wales” e della “Repulse”

La corazzata “Prince of Wales” e l’incrociatore da battaglia “Repulse” furono mandati dagli inglesi nel Pacifico per contrastare la crescente minaccia giapponese. La loro presenza era molto importante per la difesa di Singapore.
Le due navi, insieme a una piccola scorta di cacciatorpediniere, costituivano la “Forza Z” al comando dell'Ammiraglio sir Tom Phillips. Egli era molto critico riguardo alla composizione delle sue navi in quanto riteneva che ci fossero poche navi di supporto e praticamente nessuna copertura aerea; la RAF, infatti, non aveva nessun caccia moderno nella zona della Malesia e, per di più, la portaerei “Indomitable”, che avrebbe dovuto far parte della formazione, si trovava ancora sottoposta a lavori di riparazione per danni subiti durante prove di navigazione.
L’8 dicembre 1941 arrivarono segnalazioni di sbarchi nipponici nel sud-est asiatico; Phillips ritenne che, non essendo state avvistate navi da guerra giapponesi nel settore, si potesse salpare e andare a contrastare gli attaccanti nel momento dello sbarco interrompendone i rifornimenti.
Alle 17.35 del giorno 8 le unità inglesi partirono dalla rada di Singapore dirigendo verso le navi nemiche.
Phillips richiese anche una copertura aerea mediante i caccia di base a Singora; questa, però, venne negata ma l’Ammiraglio decise di proseguire lo stesso con il piano dato che contava di sfruttare il fattore sorpresa.
Il giorno dopo però la sua flotta fu avvistata da un ricognitore giapponese e, successivamente, da altri due aerei; anche il vantaggio della sorpresa ormai era svanito.
A Phillips non rimaneva, quindi, che annullare l’operazione e, approfittando dell’oscurità fece, quindi, invertire la rotta tornando verso la rada di Singapore.
Poco prima di mezzanotte, però, ricevette una nuova segnalazione su sbarchi nipponici a Kuantan. Se l’attacco nemico avesse avuto successo, ai britannici sarebbero stati interrotti i rifornimenti al loro settore meridionale. Per non far scoprire ai giapponesi le sue intenzioni mantenne il silenzio radio pensando che lo Stato Maggiore di Singapore avesse già deciso di mandargli in appoggio tutti i caccia disponibili per l’appoggio aereo.
Quando arrivò a Kuantan, però, Phillips trovò tutto tranquillo e nessuna traccia di truppe del Sol Levante. Ignorava che le sue navi erano state avvistate da un sottomarino nemico che ne trasmise la posizione alla 22° flottiglia aerea (nel frattempo le unità che trasportavano gli uomini per lo sbarco erano state mandate nella sicura baia di Cam Ranh, in Vietnam).
La mattina del 10 dicembre gli aerosiluranti e i bombardieri giapponesi decollarono per l’attacco che iniziò alle 11.19. Colpirono entrambe le navi: sei siluri colpirono la “Prince of Wales” rendendo inutilizzabili i generatori, i meccanismi di trasmissione, il radar, gli impianti radio e le artiglierie antiaeree. Alle 12:41 venne ordinato l’abbandono della nave che affondò minuti quaranta minuti dopo; un migliaio di uomini vennero recuperati da un cacciatorpediniere mentre altri due presero a bordo i marinai del “Repulse”, anch’esso poi colpito e affondato dopo essersi capovolto.
La perdita delle due navi fu un duro colpo per l’orgoglio che aveva sempre contraddistinto la Royal Navy e dimostrò, definitivamente, che, ormai, anche le grandi navi da guerra non potevano più affrontare una battaglia senza un’adeguata copertura aerea.

L’incursione aerea su Tokyo (“raid Doolittle”)

Nei primi mesi del 1942 gli americani non solo avevano subito l’attacco a Pearl Harbor ma non poterono nemmeno impedire nemmeno la conquista giapponese dell’isola di Wake, di Guam e delle Filippine. Per sollevare il morale alle proprie forze armate e dimostrare all’opinione pubblica di saper reagire gli americani prepararono un bombardamento aereo su Tokyo. Per organizzare l’incursione aerea venne seguita un’idea del capitano di marina Francis Low, e cioè che, in particolari condizioni, dei bombardieri bimotori sarebbero potuti decollare dal ponte di volo di una portaerei.
La pianificazione venne affidata al tenente colonnello James Harold "Jimmy" Doolittle, aviatore ed ingegnere aeronautico; egli era convinto che il tipo di bombardiere avente le caratteristiche più adatte per compiere la missione fosse il B-25.
Il primo aprile 1942, dopo mesi di ininterrotto addestramento, sedici bombardieri North American B-25 Mitchell, opportunamente alleggeriti di tutto quanto non era strettamente indispensabile, furono caricati sulla portaerei “Hornet”. Ogni aereo trasportava 4 bombe da circa 500 libbre, due mitragliatrici di calibro 0,50 di calibro e una da 0,30 nel muso. Il giorno successivo la “Hornet” salpò dal porto di Alameda, in California per aggregarsi poi all’altra portaerei “Enterprise” e alla sua scorta di incrociatori e cacciatorpediniere. La protezione aerea della flotta era assicurata dai velivoli della “Enterprise” dato che quelli della “Hornet” erano stati stivati sotto il ponte per far posto, sul ponte di volo, ai bombardieri.
La mattina del 18 aprile le navi americane vennero avvistate da un’imbarcazione nemica mentre si trovavano a 1.200 km di distanza dal Giappone. Venne dato subito l’allarme via radio e, anche se la nave nipponica fu poi distrutta da un cacciatorpediniere statunitense, Doolittle decise di far decollare subito i suoi aerei, nonostante fossero 370 km più lontani del punto previsto per il lancio.
Tutti e sedici i bombardieri decollarono senza problemi e volarono a bassa quota fino al Giappone che raggiunsero verso mezzogiorno; sganciarono il loro carico di bombe su obiettivi militari situati nelle città di Tokyo, Kobe, Yokohama, Osaka e Nagoya.
Dopo il bombardamento si diressero verso la Cina ma, in questo tratto, dovettero far fronte a molte difficoltà come il peggioramento del tempo e il quasi esaurimento del carburante. Gli equipaggi si resero conto che non sarebbero mai riusciti ad atterrare come da programma e decisero di paracadutarsi; la maggior parte degli uomini arrivarono a terra senza problemi ma due morirono durante l’atterraggio e otto vennero catturati.
Dopo la guerra venne fuori la loro storia; gli otto aviatori fatti prigionieri furono torturati e tenuti in pessime condizioni. Tre di loro a fine agosto del 1942 vennero processati velocemente e, a metà ottobre, fucilati. Gli altri cinque rimasero in una prigione militare e poi trasferiti a Naking, dove uno di loro, nell’aprile del ’43, mori per la denutrizione e gli abusi subiti.
I quattro rimanenti vennero liberati dalle truppe americane nell'agosto del 1945.
Il raid di Doolittle non provocò molti danni materiali ma fu determinante per dare morale agli americani dopo l’attacco subito a Pearl Harbor e dopo i ripetuti successi nipponici nel Pacifico. Inoltre i giapponesi dovettero richiamare dalla prima linea alcuni caccia per schierarli a protezione del loro stesso territorio.

La Battaglia del Mar dei Coralli

La battaglia del mar dei Coralli fu combattuta agli inizi di maggio 1942 e, per la prima volta nel conflitto, sia i giapponesi che gli americani schieravano le loro portaerei une contro le altre.
Per contrastare lo sbarco delle truppe del Sol Levante in Nuova Guinea, il primo maggio 1942 gli Usa inviarono due task force, (che comprendevano le portaerei “Yorktown” e “Lexington”, 8 incrociatori, 13 cacciatorpediniere e tre navi appoggio) nella zona tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.
La flotta giapponese che doveva compiere lo sbarco, invece, era composta da tre portaerei (“Shokaku”, “Shoho” e “Zuikaku”), 9 incrociatori, 13 cacciatorpediniere, sei sottomarini e varie altre unità di appoggio.
Il 4 maggio i velivoli della “Yorktown” affondarono un cacciatorpediniere e altre tre navi giapponesi.
Tre giorni dopo un ricognitore americano localizzò due portaerei nemiche che vennero subito attaccate facendo colare a picco la “Shoho”; i nipponici, a loro volta, un cacciatorpediniere e una petroliera statunitensi.
L’8 maggio la “Shokaku” venne colpita dagli aerei nemici che le inflissero gravi danni mentre quelli del Sol Levante resero praticamente inutilizzabile la “Lexington”; il capo della flotta alleata, il contrammiraglio Fletcher, ne ordinò poi l’evacuazione per poi affondarla con un suo cacciatorpediniere.
Le perdite furono di 540 uomini per gli americani e 3.500 per i giapponesi.

La Battaglia delle Midway

La Battaglia delle Midway fu combattuta tra il 4 e il 6 giugno 1942 tra le marine americane e giapponesi e rappresentò la svolta nelle operazioni del Pacifico perché, dopo di essa, gli americani passeranno all’offensiva e terranno sempre l’iniziativa fino alla fine del conflitto.
I piani giapponesi erano quelli di tendere una trappola alle portaerei americane e, una volta tolte queste di mezzo, avere la strada libera per una futura invasione delle isole Hawaii.
Quello che i nipponici non sapevano, però, era che gli americani erano ormai in grado di decifrare il codice di comunicazione (JN-25) della loro Flotta Imperiale Giapponese; solo un punto rimaneva ancora oscuro: quale fosse il punto “AF” che era l’obiettivo di un grosso attacco; alcuni erano convinti che si trattasse delle Midway e altri che fossero le Aleutine.
La soluzione arrivò da un suggerimento di un ufficiale delle Hawaii: chiese al comandante della base di Midway di chiamare per radio quella di Pearl Harbor per segnalare che le isole erano senza acqua potabile per un guasto agli impianti di desalinizzazione. Decifrando, poi, i messaggi in codice dei giapponesi, si scoprì che uno di essi comunicava che “AF” aveva problemi di acqua potabile e che, quindi, l’attacco doveva essere fatto in tempi brevi per sfruttare il vantaggio. Si ebbe quindi la conferma che con “AF” si indicavano le Midway come zona scelta dal Sol Levante per l’attacco.
In questo modo il Comandante della Flotta del Pacifico americana, l'Ammiraglio Chester Nimitz (che il 27 dicembre 1941 aveva preso il posto di Husband Kimmel), poté preparare un piano per effettuare un'imboscata alle navi giapponesi.
Il 4 giugno gli aerei nipponici decollati dalle loro portaerei bombardarono e inflissero danni alla base di Midway. Una volta tornati alle loro navi l'Ammiraglio Chuichi Nagumo diede ordine di riarmarli per una seconda ondata di attacchi ma, durante il rifornimento, vennero localizzate le navi americane; Nagumo cambiò idea e decise di preparare i suoi velivoli per l’attacco alle unità nemiche.
Quest’ultime, al comando del Contrammiraglio Raymond A. Spruance, avevano, però, grazie alla decifrazione dei codici, il vantaggio di sapere in anticipo le intenzioni giapponesi. Con gli aerei imbarcati sulla “Enterprise” e sulla “Hornet” lanciò più attacchi ma, alla fine, perse 83 velivoli contro i soli 6 nemici.
Anche se il bilancio fu insoddisfacente, questi attacchi lasciarono scoperta la copertura aerea delle portaerei del Sol Levante; i bombardieri in picchiata statunitensi poterono quindi colpire, nell’ordine e senza incontrare resistenza, le portaerei “Kaga”, centrata da una bomba di 500 chili e colata a picco alle 19.25, “Akagi”, colpita da due bombe e affondata da un sommergibile nipponico e “Soryu”, colata a picco in un quarto d’ora.
Per vendicare lo smacco subito gli aerei nipponici decollati dall’ultima portaerei giapponese rimasta, la “Hiryu”, colpirono americana “Yorktown” prima danneggiandola seriamente e poi affondandola (insieme a una nave di scorta) il 7 giugno con un sottomarino.
La risposta statunitense non si fece attendere: i velivoli della “Enterprise”, a loro volta, presero di mira la “Hiryu” e la colpirono incendiandola; danneggiarono quindi un cacciatorpediniere e affondarono un incrociatore.
Dopo aver fatto perdere ai giapponesi quattro portaerei le navi americane si ritirarono.
Alla fine di questa battaglia il Sol Levante perse la supremazia nel Pacifico e, da quel momento, sarebbero stati sempre sulla difensiva. L’apparato industriale statunitense avrebbe ormai permesso di schierare una flotta ben più potente che quella nemica confermando quello che aveva sempre pensato Yamamoto.

Raid su Dieppe (operazione Jubilee)

L'operazione “Jubilee”, organizzata dagli Alleati nell’agosto del 1942, prevedeva lo sbarco di truppe sulle spiagge situate vicino alla cittadina di Dieppe, nel Nord della Francia. Fu scelta Dieppe perché era a soli 108 chilometri dalle coste inglesi e perché aveva una spiaggia seguita da una spianata di circa un chilometro e mezzo.
Quest’operazione aveva un duplice scopo: da una parte, alleggerire la pressione sulle truppe sovietiche (nel 1942 esse erano le uniche ad affrontare la Wehrmacht sul continente europeo) e, dall’altra, acquisire informazioni precise sulla composizione del Vallo Atlantico per poter preparare al meglio la futura invasione della “Fortezza Europa”.
Lo sbarco venne fissato per la giornata del 4 luglio 1942 e il comando fu affidato all’ammiraglio Lord Louis Mountbatten; dovevano prendere terra circa 6.100 soldati suddivisi in due brigate di fanteria canadese (questi uomini, però, non avevano mai partecipato ad una battaglia ma solamente ad addestramenti), alcune unità di paracadutisti e un battaglione composto da 30 carri armati.
A questi ultimi e alla fanteria fu affidato il compito di attaccare il porto mentre i paracadutisti dovevano mettere fuori uso i cannoni delle batterie costiere.
A causa del maltempo, non vennero, però, utilizzati i paracadutisti ma gruppi di commando (circa mille uomini tra inglesi, ranger americani e francesi indipendenti) che dovevano effettuare un’incursione anfibia.
L’appoggio navale e aereo allo sbarco doveva essere garantito da caccia, bombardieri pesanti e dalla flotta che doveva portare le truppe da sbarco; il capo del “Bomber Command”, Sir Arthur Harris, però, non si dichiarò d’accordo dato che non voleva esporre i propri bombardieri alla caccia tedesca (facendo mancare, quindi, il loro supporto alle forze di terra); inoltre, per la scorta, la Royal Navy mise a disposizione solo otto cacciatorpediniere e qualche nave da cannoneggiamento.

L'attacco

Per il continuare delle pessime condizioni meteo l’attacco venne rinviato al 19 agosto; le esercitazioni, che intanto vennero svolte come preparazione per lo sbarco, non sfuggirono alla ricognizione tedesca; i nazisti rafforzarono le loro difese in Normandia e misero le loro truppe nello stato di massima allerta. L’effetto sorpresa, su cui gli Alleati contavano, si poteva quindi definire svanito.
La notte del 19 agosto i dragamine inglesi, che precedevano 23 imbarcazioni alleate, aprirono un corridoio nel canale della Manica scontrandosi solamente con un convoglio tedesco composto da cinque navi scortate da tre cacciatorpediniere; solamente 7 delle 23 navi riuscirono a far sbarcare i loro uomini. Un gruppo di questi mise a tacere sei grossi cannoni della prima batteria costiera.
Data l’assenza di un iniziale bombardamento pesante e lo scarso cannoneggiamento proveniente dalle navi, la fanteria canadese affrontò le difese tedesche intatte e fu decimata dalle mitragliatrici e dai mortai nemici. Inoltre, una parte dei carri armati affondò in mare mentre, quelli che riuscirono ad arrivare sulla spiaggia (solamente 27 su 50), erano in difficoltà a muoversi sui ciottoli e furono distrutti dalle armi anticarro naziste. Solo alcuni soldati della fanteria riuscirono a entrare in città ma senza conseguire risultati.
Un'altra carenza alleata messa in evidenza da questa operazione fu quella del servizio di comunicazione; infatti, Mountbatten, che si trovava a bordo di un cacciatorpediniere, non riusciva a seguire l’andamento delle operazioni di sbarco dati i gravi ritardi, dovuti alla scarsa organizzazione, con cui giungevano le notizie dalla spiaggia.
Dopo nove ore di combattimenti fu decisa la ritirata. Alle 11 i mezzi di salvataggio inglesi raggiunsero la riva e, nonostante l’incessante fuoco nemico, riuscirono a mettere in salvo un migliaio di uomini. Alle 13.08 gli ultimi supersiti alleati si arresero ai loro nemici.