giovedì 8 aprile 2010

La battaglia di Stalingrado

Operazione “Fall Blau”

Per riprendere l’iniziativa sul fronte orientale, dopo l’arresto dovuto agli attacchi dell’Armata Rossa durante l’inverno del 1941, Hitler, il 5 aprile 1942, mise a punto la cosiddetta “Operazione Fall Blau” (cascata azzurra): questo piano prevedeva un’offensiva tedesca nella Russia meridionale che doveva occupare il bacino del Volga e puntare dritta ai pozzi petroliferi del Caucaso.
L’operazione doveva scattare i primi di maggio ma la tenace resistenza sovietica a Sebastopoli la fece rinviare di un mese. I nazisti conseguirono subito facili successi e occuparono le regioni di Kharkov, Rostov e Voronez (quest’ultima cadde il 9 luglio). Ad agosto la 6° armata tedesca giunse nella grande ansa del Don ed il giorno 23 il 14° Corpo Panzer raggiunse Stalingrado.


La conquista di Stalingrado (l’odierna Volgograd) era, per Hitler, importantissima dato che si trovava in una posizione strategica sulla strada per il Caucaso e i suoi ricchi giacimenti di petrolio. Si estendeva per 40 chilometri lungo la riva occidentale del Volga e, in essa, vi erano tre enormi complessi industriali: le officine “Barricate rosse” dove si producevano cannoni, le “Scercinski” per i carri armati e le “Ottobre Rosso” per le armi portatili e le munizioni. Inoltre il Fuhrer riteneva la sua conquista fondamentale anche dal punto di vista simbolico; Stalingrado era una delle maggiori città industriali dell’Unione Sovietica e, dato che portava anche il nome del suo leader, la sua occupazione avrebbe rappresentato la sconfitta morale del bolscevismo.

L’inizio della battaglia

L’Alto Comando della Wehrmacht aveva elaborato un piano di accerchiamento per distruggere la 62° e la 64° Armata sovietica che si contrapponevano ai tedeschi davanti a Stalingrado.
Il 17 luglio 1942 la 6° Armata nazista lanciò l’assalto alla linea del Don ma i russi riuscirono ad arrestarne l’avanzata; Hitler inviò in aiuto altri 3 corpi d’armata (di cui uno corazzato) ma, in un mese, le sue truppe avanzarono soltanto di una sessantina di chilometri.
Solamente verso la fine di agosto il maresciallo Paulus, comandante della 6° Armata, riuscì ad arrivare al Volga tagliando, in questo modo, i rifornimenti vitali alla città che arrivavano attraverso di esso; i sovietici sfuggirono ripetutamente ai tentativi nemici di chiuderli in una sacca e si ritirarono tra le macerie del centro abitato dove, fin dall’inizio dell’anno, erano state costruite numerose opere difensive come fossati, trincee coperte, bastioni e fortini.
Fin dall’inizio dell’assedio alla città l’accanita resistenza russa causò gravi perdite ai tedeschi: nei soli primi dieci giorni di settembre ebbero 24.000 morti e persero 500 carri armati.
La Luftwaffe scaricò su Stalingrado centinaia di migliaia di bombe effettuando continue incursioni specialmente con i bombardieri in picchiata “Stuka”; furono presi di mira, in particolare, i complessi industriali e i depositi da cui si rifornivano le truppe russe.
Da metà settembre in poi i combattenti si trasformarono in una grande battaglia strada per strada. I tedeschi impiegarono un gran numero di uomini e carri armati supportati continuamente dai bombardamenti dell’aviazione.
Occuparono il centro cittadino e arrivarono anche a 800 metri circa dal quartier generale di Vasilij Ivanovic Cujkov, comandante della 62° Armata sovietica, ma i difensori continuarono a resistere. La città fu ridotta a un cumulo di macerie ma queste servirono agli uomini di Stalin per ripararsi, nascondersi e contrattaccare i tedeschi. I russi avevano, poi, alle loro spalle, reparti di uomini dell’NKVD per impedire che i loro soldati si arrendessero o disertassero. I sovietici sfruttarono ogni possibile nascondiglio per piazzarvi mortai e mitragliatrici: gli scheletri delle officine, i crateri delle bombe, le macerie degli edifici. Nei vicoli stretti della città, usando le bottiglie molotov, riuscivano a tendere imboscate ai panzer tedeschi che poco potevano fare per opporsi in un teatro di quel genere.
Alla fine di settembre Paulus lanciò un nuovo attacco, su un fronte di 4 chilometri, con nove divisioni di cui due corazzate; riuscirono ad avanzare lentamente e solo a metà novembre raggiunsero il Volga, anche se solamente in un settore largo 500 metri. Due mesi dopo il fiume iniziò a gelare e divenne non più attraversabile per le comuni barche viste le grosse lastre di ghiaccio. Paulus attese proprio queste condizioni per sferrare un nuovo assalto richiamando tutte le forze disponibili. Ormai il settore russo sulla riva sinistra del fiume era stretto per circa otto chilometri lungo il Volga ma, da esso, distava al massimo 300 metri.
In questa situazione di estrema difficoltà, però, i sovietici reagirono.

La controffensiva sovietica

Ormai era alle porte il terribile inverno russo e il 17 novembre iniziò a nevicare. Due giorni dopo il generale Zukov, dopo avere concentrato nel settore del Don un gran numero di cannoni, mortai, aerei e carri armati, ordinò all’Armata Rossa il grande contrattacco con una manovra a tenaglia a nord e a sud della città; dall’oriente erano anche arrivate nuove divisioni corazzate in maggioranza siberiane ed equipaggiate a dovere per combattere alle temperature del rigido inverno. Lo scopo era di sfondare il fronte e di accerchiare la 6° Armata di Paulus presente a Stalingrado.
L’offensiva sovietica (operazione “Urano”) si concentrò in due zone: la prima a circa 160 chilometri a nord-ovest di Stalingrado (al comando di Rokossovkij e di Vatutin) e la seconda a 70 chilometri a sud (alla guida di Yeremenko).
L’offensiva partì il 19 novembre 1942 sul settore della prima zona dopo un bombardamento effettuato con 3.500 pezzi d’artiglieria. Nel tratto di fronte investito dall’attacco vi erano forze rumene che erano comprese tra le italiane a nord e le tedesche a sud; il tracollo dei rumeni (la sconfitta della loro 3° Armata fece catturare ai sovietici oltre 27.000 prigionieri) coinvolse anche le truppe italiane dell’ARMIR.
A sud, intanto, i russi avanzarono per incontrare, con un movimento a tenaglia, le truppe provenienti da nord (nei pressi di Kalach) e chiudere così, in una sacca, l’intera 6° Armata nazista.
I 250.000 tedeschi chiusi a Stalingrado non riuscivano ormai ad avere più nessun tipo di rifornimento dato che anche i loro aerei da trasporto erano quasi sempre abbattuti dalla contraerea sovietica; dovevano fare i conti con la mancanza di cibo, carburante e divise invernali per fronteggiare il freddo.
Paulus, anziché provare a uscire dalla sacca in cui stava finendo, non si oppose all’ordine perentorio di Hitler che gli imponeva di non ritirarsi e di difendersi fino all’ultimo uomo.
Per liberarlo dall’accerchiamento, il comando della Wehrmacht cercò di mandarle incontro la 4° Armata corazzata tedesca (quest’ultima proveniente dalla Francia) e la 4° Armata rumena (oltre ai resti della 3°) al comando del maresciallo Von Manstein; il 12 dicembre 1942 l’attacco (operazione “Winter Storm”) fu sferrato vicino a Kotelnikovo, a sud-est del Don, ma i sovietici avevano avuto tutto il tempo per rafforzare le difese della zona facendovi confluire numerosi uomini e mezzi.
Von Manstein arrivò a soli 30 chilometri dalle truppe di Paulus ma poi dovette mettersi sulla difensiva, anche perché Hitler negò a quest’ultimo l’ordine di attaccare, contemporaneamente, proprio in direzione dei corazzati di Von Manstein.
Ogni speranza di liberare la 6° Armata tedesca venne meno e, durante il mese di dicembre, l’Asse perse anche la 3° e la 4° Armata rumena e l’8° italiana distrutte dai sovietici.
Con la nuova offensiva russa denominata “Piccola Saturno” il fronte tedesco fu ulteriormente allontanato dalla sacca di Stalingrado e anche Von Manstein fu costretto ad allontanarsi dalla città.

Nessun commento:

Posta un commento