mercoledì 7 aprile 2010

Le battaglie sui mari (1942, fronte del Pacifico)

L’affondamento della “Prince of Wales” e della “Repulse”

La corazzata “Prince of Wales” e l’incrociatore da battaglia “Repulse” furono mandati dagli inglesi nel Pacifico per contrastare la crescente minaccia giapponese. La loro presenza era molto importante per la difesa di Singapore.
Le due navi, insieme a una piccola scorta di cacciatorpediniere, costituivano la “Forza Z” al comando dell'Ammiraglio sir Tom Phillips. Egli era molto critico riguardo alla composizione delle sue navi in quanto riteneva che ci fossero poche navi di supporto e praticamente nessuna copertura aerea; la RAF, infatti, non aveva nessun caccia moderno nella zona della Malesia e, per di più, la portaerei “Indomitable”, che avrebbe dovuto far parte della formazione, si trovava ancora sottoposta a lavori di riparazione per danni subiti durante prove di navigazione.
L’8 dicembre 1941 arrivarono segnalazioni di sbarchi nipponici nel sud-est asiatico; Phillips ritenne che, non essendo state avvistate navi da guerra giapponesi nel settore, si potesse salpare e andare a contrastare gli attaccanti nel momento dello sbarco interrompendone i rifornimenti.
Alle 17.35 del giorno 8 le unità inglesi partirono dalla rada di Singapore dirigendo verso le navi nemiche.
Phillips richiese anche una copertura aerea mediante i caccia di base a Singora; questa, però, venne negata ma l’Ammiraglio decise di proseguire lo stesso con il piano dato che contava di sfruttare il fattore sorpresa.
Il giorno dopo però la sua flotta fu avvistata da un ricognitore giapponese e, successivamente, da altri due aerei; anche il vantaggio della sorpresa ormai era svanito.
A Phillips non rimaneva, quindi, che annullare l’operazione e, approfittando dell’oscurità fece, quindi, invertire la rotta tornando verso la rada di Singapore.
Poco prima di mezzanotte, però, ricevette una nuova segnalazione su sbarchi nipponici a Kuantan. Se l’attacco nemico avesse avuto successo, ai britannici sarebbero stati interrotti i rifornimenti al loro settore meridionale. Per non far scoprire ai giapponesi le sue intenzioni mantenne il silenzio radio pensando che lo Stato Maggiore di Singapore avesse già deciso di mandargli in appoggio tutti i caccia disponibili per l’appoggio aereo.
Quando arrivò a Kuantan, però, Phillips trovò tutto tranquillo e nessuna traccia di truppe del Sol Levante. Ignorava che le sue navi erano state avvistate da un sottomarino nemico che ne trasmise la posizione alla 22° flottiglia aerea (nel frattempo le unità che trasportavano gli uomini per lo sbarco erano state mandate nella sicura baia di Cam Ranh, in Vietnam).
La mattina del 10 dicembre gli aerosiluranti e i bombardieri giapponesi decollarono per l’attacco che iniziò alle 11.19. Colpirono entrambe le navi: sei siluri colpirono la “Prince of Wales” rendendo inutilizzabili i generatori, i meccanismi di trasmissione, il radar, gli impianti radio e le artiglierie antiaeree. Alle 12:41 venne ordinato l’abbandono della nave che affondò minuti quaranta minuti dopo; un migliaio di uomini vennero recuperati da un cacciatorpediniere mentre altri due presero a bordo i marinai del “Repulse”, anch’esso poi colpito e affondato dopo essersi capovolto.
La perdita delle due navi fu un duro colpo per l’orgoglio che aveva sempre contraddistinto la Royal Navy e dimostrò, definitivamente, che, ormai, anche le grandi navi da guerra non potevano più affrontare una battaglia senza un’adeguata copertura aerea.

L’incursione aerea su Tokyo (“raid Doolittle”)

Nei primi mesi del 1942 gli americani non solo avevano subito l’attacco a Pearl Harbor ma non poterono nemmeno impedire nemmeno la conquista giapponese dell’isola di Wake, di Guam e delle Filippine. Per sollevare il morale alle proprie forze armate e dimostrare all’opinione pubblica di saper reagire gli americani prepararono un bombardamento aereo su Tokyo. Per organizzare l’incursione aerea venne seguita un’idea del capitano di marina Francis Low, e cioè che, in particolari condizioni, dei bombardieri bimotori sarebbero potuti decollare dal ponte di volo di una portaerei.
La pianificazione venne affidata al tenente colonnello James Harold "Jimmy" Doolittle, aviatore ed ingegnere aeronautico; egli era convinto che il tipo di bombardiere avente le caratteristiche più adatte per compiere la missione fosse il B-25.
Il primo aprile 1942, dopo mesi di ininterrotto addestramento, sedici bombardieri North American B-25 Mitchell, opportunamente alleggeriti di tutto quanto non era strettamente indispensabile, furono caricati sulla portaerei “Hornet”. Ogni aereo trasportava 4 bombe da circa 500 libbre, due mitragliatrici di calibro 0,50 di calibro e una da 0,30 nel muso. Il giorno successivo la “Hornet” salpò dal porto di Alameda, in California per aggregarsi poi all’altra portaerei “Enterprise” e alla sua scorta di incrociatori e cacciatorpediniere. La protezione aerea della flotta era assicurata dai velivoli della “Enterprise” dato che quelli della “Hornet” erano stati stivati sotto il ponte per far posto, sul ponte di volo, ai bombardieri.
La mattina del 18 aprile le navi americane vennero avvistate da un’imbarcazione nemica mentre si trovavano a 1.200 km di distanza dal Giappone. Venne dato subito l’allarme via radio e, anche se la nave nipponica fu poi distrutta da un cacciatorpediniere statunitense, Doolittle decise di far decollare subito i suoi aerei, nonostante fossero 370 km più lontani del punto previsto per il lancio.
Tutti e sedici i bombardieri decollarono senza problemi e volarono a bassa quota fino al Giappone che raggiunsero verso mezzogiorno; sganciarono il loro carico di bombe su obiettivi militari situati nelle città di Tokyo, Kobe, Yokohama, Osaka e Nagoya.
Dopo il bombardamento si diressero verso la Cina ma, in questo tratto, dovettero far fronte a molte difficoltà come il peggioramento del tempo e il quasi esaurimento del carburante. Gli equipaggi si resero conto che non sarebbero mai riusciti ad atterrare come da programma e decisero di paracadutarsi; la maggior parte degli uomini arrivarono a terra senza problemi ma due morirono durante l’atterraggio e otto vennero catturati.
Dopo la guerra venne fuori la loro storia; gli otto aviatori fatti prigionieri furono torturati e tenuti in pessime condizioni. Tre di loro a fine agosto del 1942 vennero processati velocemente e, a metà ottobre, fucilati. Gli altri cinque rimasero in una prigione militare e poi trasferiti a Naking, dove uno di loro, nell’aprile del ’43, mori per la denutrizione e gli abusi subiti.
I quattro rimanenti vennero liberati dalle truppe americane nell'agosto del 1945.
Il raid di Doolittle non provocò molti danni materiali ma fu determinante per dare morale agli americani dopo l’attacco subito a Pearl Harbor e dopo i ripetuti successi nipponici nel Pacifico. Inoltre i giapponesi dovettero richiamare dalla prima linea alcuni caccia per schierarli a protezione del loro stesso territorio.

La Battaglia del Mar dei Coralli

La battaglia del mar dei Coralli fu combattuta agli inizi di maggio 1942 e, per la prima volta nel conflitto, sia i giapponesi che gli americani schieravano le loro portaerei une contro le altre.
Per contrastare lo sbarco delle truppe del Sol Levante in Nuova Guinea, il primo maggio 1942 gli Usa inviarono due task force, (che comprendevano le portaerei “Yorktown” e “Lexington”, 8 incrociatori, 13 cacciatorpediniere e tre navi appoggio) nella zona tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.
La flotta giapponese che doveva compiere lo sbarco, invece, era composta da tre portaerei (“Shokaku”, “Shoho” e “Zuikaku”), 9 incrociatori, 13 cacciatorpediniere, sei sottomarini e varie altre unità di appoggio.
Il 4 maggio i velivoli della “Yorktown” affondarono un cacciatorpediniere e altre tre navi giapponesi.
Tre giorni dopo un ricognitore americano localizzò due portaerei nemiche che vennero subito attaccate facendo colare a picco la “Shoho”; i nipponici, a loro volta, un cacciatorpediniere e una petroliera statunitensi.
L’8 maggio la “Shokaku” venne colpita dagli aerei nemici che le inflissero gravi danni mentre quelli del Sol Levante resero praticamente inutilizzabile la “Lexington”; il capo della flotta alleata, il contrammiraglio Fletcher, ne ordinò poi l’evacuazione per poi affondarla con un suo cacciatorpediniere.
Le perdite furono di 540 uomini per gli americani e 3.500 per i giapponesi.

La Battaglia delle Midway

La Battaglia delle Midway fu combattuta tra il 4 e il 6 giugno 1942 tra le marine americane e giapponesi e rappresentò la svolta nelle operazioni del Pacifico perché, dopo di essa, gli americani passeranno all’offensiva e terranno sempre l’iniziativa fino alla fine del conflitto.
I piani giapponesi erano quelli di tendere una trappola alle portaerei americane e, una volta tolte queste di mezzo, avere la strada libera per una futura invasione delle isole Hawaii.
Quello che i nipponici non sapevano, però, era che gli americani erano ormai in grado di decifrare il codice di comunicazione (JN-25) della loro Flotta Imperiale Giapponese; solo un punto rimaneva ancora oscuro: quale fosse il punto “AF” che era l’obiettivo di un grosso attacco; alcuni erano convinti che si trattasse delle Midway e altri che fossero le Aleutine.
La soluzione arrivò da un suggerimento di un ufficiale delle Hawaii: chiese al comandante della base di Midway di chiamare per radio quella di Pearl Harbor per segnalare che le isole erano senza acqua potabile per un guasto agli impianti di desalinizzazione. Decifrando, poi, i messaggi in codice dei giapponesi, si scoprì che uno di essi comunicava che “AF” aveva problemi di acqua potabile e che, quindi, l’attacco doveva essere fatto in tempi brevi per sfruttare il vantaggio. Si ebbe quindi la conferma che con “AF” si indicavano le Midway come zona scelta dal Sol Levante per l’attacco.
In questo modo il Comandante della Flotta del Pacifico americana, l'Ammiraglio Chester Nimitz (che il 27 dicembre 1941 aveva preso il posto di Husband Kimmel), poté preparare un piano per effettuare un'imboscata alle navi giapponesi.
Il 4 giugno gli aerei nipponici decollati dalle loro portaerei bombardarono e inflissero danni alla base di Midway. Una volta tornati alle loro navi l'Ammiraglio Chuichi Nagumo diede ordine di riarmarli per una seconda ondata di attacchi ma, durante il rifornimento, vennero localizzate le navi americane; Nagumo cambiò idea e decise di preparare i suoi velivoli per l’attacco alle unità nemiche.
Quest’ultime, al comando del Contrammiraglio Raymond A. Spruance, avevano, però, grazie alla decifrazione dei codici, il vantaggio di sapere in anticipo le intenzioni giapponesi. Con gli aerei imbarcati sulla “Enterprise” e sulla “Hornet” lanciò più attacchi ma, alla fine, perse 83 velivoli contro i soli 6 nemici.
Anche se il bilancio fu insoddisfacente, questi attacchi lasciarono scoperta la copertura aerea delle portaerei del Sol Levante; i bombardieri in picchiata statunitensi poterono quindi colpire, nell’ordine e senza incontrare resistenza, le portaerei “Kaga”, centrata da una bomba di 500 chili e colata a picco alle 19.25, “Akagi”, colpita da due bombe e affondata da un sommergibile nipponico e “Soryu”, colata a picco in un quarto d’ora.
Per vendicare lo smacco subito gli aerei nipponici decollati dall’ultima portaerei giapponese rimasta, la “Hiryu”, colpirono americana “Yorktown” prima danneggiandola seriamente e poi affondandola (insieme a una nave di scorta) il 7 giugno con un sottomarino.
La risposta statunitense non si fece attendere: i velivoli della “Enterprise”, a loro volta, presero di mira la “Hiryu” e la colpirono incendiandola; danneggiarono quindi un cacciatorpediniere e affondarono un incrociatore.
Dopo aver fatto perdere ai giapponesi quattro portaerei le navi americane si ritirarono.
Alla fine di questa battaglia il Sol Levante perse la supremazia nel Pacifico e, da quel momento, sarebbero stati sempre sulla difensiva. L’apparato industriale statunitense avrebbe ormai permesso di schierare una flotta ben più potente che quella nemica confermando quello che aveva sempre pensato Yamamoto.

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