martedì 30 marzo 2010

L'attacco a Pearl Harbor

Alle 5 del mattino del 7 dicembre 1941, dagli incrociatori giapponesi, furono catapultati due idrovolanti per cercare le portaerei americane ma la ricerca fu vana.
Alla stazione radio di Bainbridge Island, intanto, fu intercettato e decriptato un importantissimo messaggio in codice “Purple”: esso ordinava all’ambasciatore giapponese di presentare al Segretario di Stato americano la comunicazione ufficiale della rottura dei negoziati esattamente alle ore 13 del giorno 7 (ora di Washington).
Il messaggio fu tradotto entro le ore 6 ma solamente alle 9.15 arrivò all’ammiraglio Stark, capo delle operazioni navali; altri 35 minuti passarono prima che giungesse al Segretario di Stato e altri 70 prima che lo vedesse il generale Marshall, Capo di Stato Maggiore Generale degli Stati Uniti.
Marshall propose subito a Stark di trasmettere un avviso di guerra a tutte le forze armate ma questi non approvò; preparò, allora, un suo personale messaggio ai comandanti dell’esercito che fu consegnato, per la cifratura e l’invio, alle ore 12.
A quell’ora, però, Nagumo aveva già dato l’ordine di attacco, nonostante nutrisse dei dubbi riguardanti il fatto che le portaerei americane “Lexington” ed “Enterprise” non si trovassero ormeggiate nella rada (avevano l’incarico di trasportare velivoli alle basi di Midway e Wake).

LA PRIMA ONDATA

La prima ondata di aerei giapponesi (49 bombardieri in quota, 43 caccia “Zero”, 40 aerosiluranti e 51 bombardieri in picchiata) partì alle 6.15 al comando di Mitsuo Fuchida; furono avvistati da due operatori radar in servizio presso la stazione di Opana e questi ne calcolarono subito la direzione di avvicinamento. La loro segnalazione fu, però, ignorata dal centro d’informazione, il quale sostenne che, probabilmente, i velivoli identificati corrispondevano a una squadriglia di “fortezze volanti” in arrivo dal continente.
Intanto, alle 6.45, al largo del porto, un sommergibile giapponese fu affondato, con bombe di profondità, dal cacciatorpediniere americano “Ward” che si trovava in pattugliamento notturno. Nemmeno l’allarme lanciato dall’unità statunitense fu preso in considerazione poiché si riteneva del tutto impossibile che potesse essere stato colpito un sottomarino nipponico.
Alle 7.48 Fuchida inviò per radio il segnale “To, To, To” (“lotta”) facendolo seguire, poco dopo, dal famoso “Tora! Tora! Tora!” (“tigre”) per comunicare che la sorpresa dell’attacco stava per riuscire.
Alle 7.55 i bombardieri in picchiata e gli aerosiluranti presero di mira i campi d’aviazione e le corazzate; la “West Virginia”, l’”Arizona”, la “Nevada”, l’”Oklahoma” e la “California” furono subito colpita dai siluri insieme agli incrociatori leggeri “Raleigh” e “Helena”. Una bomba giapponese perforò i 13 cm di corazzatura di una torretta della “Tennessee” ed esplose al suo interno mentre un’altra colpì i depositi di prua della “Arizona” che saltò letteralmente in aria; anche la “Maryland” fu colpita riportando ingenti danni.
Il campo d’aviazione di Hickham e la base aerea dell’esercito di Wheeler Field furono distrutte insieme alla stragrande maggioranza degli aerei che vi si trovavano.
Alla fine della prima ondata di velivoli del Sol Levante, intorno alle ore 8.25, gli aerei statunitensi che si trovavano erano praticamente stati tutti danneggiati o distrutti; la “West Virginia”, l’”Arizona” e la “Oklahoma” erano affondate o in procinto di farlo, la “Tennessee” era avvolta tra le fiamme e l’incrociatore “Raleigh” era mantenuto diritto solamente grazie ai suoi cavi di ormeggio.

LA SECONDA ONDATA

Alle 8.54 arrivò la seconda ondata di aerei giapponesi (decollati alle 7.15 dalla “Zuikaku”) composta da 54 bombardieri, 36 caccia “Zero” e 80 bombardieri in picchiata guidati dal comandante Shimazaki. In questa seconda fase la difesa americana fu molto più efficace dato che, nel frattempo, i cannoni contraerei statunitensi erano stati riforniti di munizioni ed era aumentato anche il numero di uomini che facevano da serventi ai pezzi. Ventinove bombardieri in picchiata giapponesi furono abbattuti ma, nonostante questo, la corazzata “Pennsylvania” fu danneggiata insieme a due cacciatorpediniere che si trovavano con essa nel bacino di carenaggio; i bombardieri in quota, intanto, arrecarono ulteriori danni alle navi già colpite in precedenza.
Alle ore 10 l’attacco terminò.

Le perdite giapponesi furono davvero minime: consisterono solamente in 9 caccia, 15 bombardieri in picchiata e 5 aerosiluranti. Gli americani, invece, tra militari e civili della base, contarono 3.405 morti e oltre mille feriti.
Nonostante fosse sollecitato dai suoi comandanti a proseguire l’attacco e a perlustrare il mare per cercare le portaerei nemiche, Nagumo, alla fine, decise di rinunciare e ordinò alla sua formazione navale di mettersi in rotta verso il Giappone (arrivarono il giorno 23 nella rada di Hashirajima).
Siccome il suo successo nell’attacco a Pearl Harbor fu totale, ritenne che proseguire con l’offensiva avrebbe significato sfidare la fortuna.
Il primo ministro Tojo tenne alla radio un esaltato discorso in cui affermava che l’intera flotta statunitense del Pacifico era stata distrutta; questo, invece, non era per nulla vero perché, innanzitutto, le portaerei erano ancora pienamente operative dato che non si trovavano nel porto e, inoltre, la maggioranza delle navi colpite dall’attacco nipponico furono, in breve tempo, riparate (tra cui sei corazzate). Infine, non erano stati distrutti i serbatoi pieni di carburante e le attrezzature di riparazione del porto; senza carburante la baia di Pearl Harbor sarebbe stata praticamente inutilizzabile per un lungo periodo.
L’attacco riuscì ma non si rivelò affatto decisivo come sperava Yamamoto.
L’8 dicembre 1941 il Congresso degli Stati Uniti dichiarò guerra al Giappone con il solo voto contrario di Jeannette Rankin.

LA DICHIARAZIONE DI GUERRA TEDESCA AGLI STATI UNITI

L’attacco giapponese colse completamente di sorpresa la Germania. Nonostante Hitler avesse promesso ai nipponici che la Germania si sarebbe unita al Giappone in un’eventuale guerra con gli Stati Uniti, formalmente l’accordo non era stato ancora concluso e i giapponesi non avevano mai parlato al Fuhrer del piano d’attacco contro Pearl Harbor.
Fu l’ambasciatore nipponico a Berlino, Oshima, che, la mattina dell’8 dicembre, dette conferma dell’offensiva a Ribbentrop.
Hitler convocò il Reichstag per l’11 dicembre e tenne un discorso molto aggressivo nei confronti di Roosevelt, accusandolo di essere il responsabile, insieme ai milionari e agli ebrei, dello scoppio del conflitto con lo scopo di giustificare il fallimento del “New Deal”.
Alle 12.30 Ribbentrop ricevette l’incaricato d’affari americano a Berlino Leland Morris e gli lesse la dichiarazione di guerra.

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