martedì 30 marzo 2010

Si avvicina Pearl Harbor....

Il piano giapponese era di conquistare intatti i giacimenti dell’Asia meridionale e di portare, poi, il petrolio, la gomma, lo stagno e la bauxite in patria senza subire incidenti. Infatti, a minacciare le future linee di rifornimento nipponiche, vi erano la base inglese di Singapore e quelle americane nelle Filippine. Con il possesso di queste ultime e della Malesia si sarebbero eliminati tutti i possibili avversari per poi procedere alla conquista del Borneo, di Giava e di Sumatra, le isole produttrici di greggio.
L’Ammiraglio Isoroku Yamamoto, Comandante in Capo della Flotta Combinata Imperiale, agli inizi del 1941 non era favorevole a un attacco contro gli Stati Uniti. A differenza della fazione militare guidata dal generale Tojo, infatti, Yamamoto riteneva che, nonostante i probabili successi iniziali dei nipponici, alla fine l’enorme potenziale di cui disponevano gli americani avrebbe fatto pendere le sorti del conflitto a loro favore; una volta arrivati a quel punto, il Giappone si sarebbe potuto presentare alle eventuali trattative di pace solamente se fosse riuscito ad insediarsi nel sud-est asiatico.
Per raggiungere quest’obiettivo Yamamoto elaborò un piano di attacco per impedire l’intervento statunitense nella guerra e procedere, poi, alla conquista dell’Asia meridionale; il piano consisteva nell’attaccare la base della “Pacific Fleet” a Pearl Harbor, nell’isola hawaiana di Oahu, distante 3.400 miglia dal Giappone.
Al contrammiraglio Takijiro Onishi (capo di stato maggiore dell’11° squadra aerea) fu affidato l’incarico di valutare la fattibilità di un attacco aereo sul porto hawaiano. Onishi chiamò anche il generale di brigata aerea Minoru Genda e quest’ultimo, alla fine di maggio, giunse alla conclusione che l’offensiva avrebbe avuto buone probabilità di successo solo se vi fossero state impiegate tutte e sei le portaerei della flotta mantenendo anche, sui preparativi, la più assoluta segretezza.
Il piano fu bocciato dal Capo di Stato Maggiore Generale della Marina, ammiraglio Nagano, il quale riteneva che le portaerei sarebbero servite per l’avanzata verso sud e che mantenere il riserbo su un’operazione che comportava una traversata oceanica di 3.400 miglia era molto rischioso. Nonostante questo, Yamamoto fece esercitare i suoi gruppi di velivoli per il bombardamento di bersagli che si trovavano in specchi d’acqua ristretti proprio come Pearl Harbor (le esercitazioni erano fatte nella baia di Kagoshima, nell’isola di Kyushu). Furono anche apportate delle modifiche ai siluri con l’aggiunta di alette stabilizzatrici per consentire ai siluri stessi di andare a segno anche in acque profonde solamente una decina di metri.
Yamamoto era fermamente convinto che l’unica possibilità di successo per il Giappone consistesse nel riportare rapidi successi iniziali contro gli Stati Uniti in modo da ridurne l’efficacia della flotta e poter, quindi, poi negoziare da posizioni di forza. Minacciò, addirittura, di dimettersi se la sua strategia non fosse stata approvata.
Il 3 settembre il piano fu approvato; consisteva nell’attraversare il Pacifico settentrionale fino a un punto a nord di Oahu dal quale far levare in volo gli aerei destinati ad attaccare Pearl Harbor.
Intanto, sul fronte diplomatico, il Giappone presentò agli Usa due proposte. La prima prevedeva l’occupazione giapponese di almeno una parte della Cina fino al 1966 e non ottenne risposta; con la seconda, invece, il Sol Levante s’impegnava a non occupare le isole produttrici di petrolio se gli Stati Uniti non si fossero messi in mezzo nel loro conflitto con i cinesi.
Prima di ottenere la risposta dagli Usa, i giapponesi riunirono le sei portaerei destinate all’attacco di Pearl Harbor nella baia di Tankan, a Etorofu, la più grande delle isole Curili, per imbarcare carburante e gli appositi siluri modificati. Per coprire tutta la manovra ciascuna portaerei partì separatamente e mantenne il silenzio radio, mentre altre navi mandarono falsi messaggi per ingannare il servizio d’intercettazione statunitense.
Dopo che il 25 novembre Yamamoto impartì gli ordini esecutivi per l’attacco (uno dei principali era proprio di non effettuare trasmissioni per sfruttare al massimo il fattore sorpresa, difatti se le navi fossero state scoperte prima del 6 dicembre l’operazione sarebbe stata sospesa), all’alba del 26 salparono, al comando dell’ammiraglio Nagumo, le sei portaerei (“Akagi”, “Kaga”, “Hiryu”, “Soryu”, “Shokaku” e “Zuikaku” che trasportarono un totale di 423 velivoli) scortate da due corazzate, due incrociatori pesanti, un incrociatore leggero, nove cacciatorpediniere e altre unità d’appoggio comprendenti le petroliere per il rifornimento.
Esse puntarono verso est lungo il quarantatreesimo parallelo, lontano da tutte le normali rotte di navigazione.
Prima di loro era partita dal Giappone una squadra di 27 sottomarini; cinque di essi trasportavano sommergibili tascabili che, con due uomini di equipaggio, sarebbero dovuti penetrare a Pearl Harbor in contemporanea all’attacco aereo. Gli altri, oltre a svolgere compiti di scorta alla formazione di portaerei, avrebbero dovuto cogliere l’occasione favorevole per attaccare qualsiasi nave americana che fosse riuscita a fuggire in mare aperto.
Sul fronte diplomatico, gli americani risposero alle proteste nipponiche con i cosiddetti “10 punti” di Hull con cui si ribadiva la richiesta del ritiro delle truppe nipponiche dalla Cina. Le trattative furono, in pratica, interrotte. I giapponesi considerarono le richieste della controparte come un ultimatum e il primo dicembre la Conferenza Imperiale dette il definitivo via libera all’attacco militare. La conferma dell’operazione arrivò alle navi di Nagumo con il messaggio in codice “Niitaka Yama Nobore” (“Scalare il monte Niitaka”); dopo essersi rifornite di carburante il giorno 4, esse si mossero in direzione sud-est, attraversando la linea internazionale del cambiamento di data, verso un punto situato 500 miglia a nord di Pearl Harbor.
Intanto, a Washington, le possibilità che gli Usa subissero un attacco aereo erano sempre state poco considerate e, infatti, alle Hawaii le esercitazioni erano svolte raramente e in modo blando; inoltre gli impianti avevano frequenti guasti e gli operatori dei radar e dei centri di controllo erano scarsamente addestrati.
Per i Comandanti della Marina americana, però, l’eventualità di un’offensiva nipponica verso gli Stati Uniti era tutt’altro che da scartare e impartirono alla “Pacific Fleet” ordini che indicavano precise istruzioni da eseguire in caso di azioni ostili giapponesi. Tutti i mercantili statunitensi che si fossero trovati nel Pacifico occidentale avrebbero dovuto dirigere immediatamente verso porti amici; inoltre le isole di Wake e Midway furono rinforzate con truppe di marines, velivoli da ricognizione e scorte di munizioni.
Mentre si avvicinavano al punto di lancio degli aerei, i giapponesi, ascoltando i messaggi radio americani, ebbero la conferma che alle Hawaii era tutto tranquillo e che il nemico, quindi, ignorava il loro prossimo attacco, anche se alcuni rapporti confermarono che nel porto si trovavano solo le corazzate e non le portaerei “Enterprise” e “Lexington” (stavano trasportando velivoli alle isole vicine).
La sera del 6 dicembre, sull’albero maestro della “Akagi”, la portaerei sulla quale si trovava Nagumo, fu issata la bandiera usata nel 1905 dall’ammiraglio Togo nella battaglia di Tsushima contro i russi.
La squadra si diresse, infine, verso il punto scelto per fare decollare i velivoli destinati all’attacco a Pearl Harbor.

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