Lo scopo principale della guerra sui mari nel secondo conflitto mondiale era quello di garantire, alle potenze belligeranti, la sicurezza dei convogli per rifornire di mezzi, carburante e materie prime le proprie truppe impegnate sui vari fronti. Per alcuni di questi Stati, ad esempio Germania e Gran Bretagna, questi rifornimenti erano fondamentali e potevano determinare la vittoria o la sconfitta su un certo scenario di guerra.
Nel settembre del 1939 la marina Britannica (Royal Navy) aveva 150 cacciatorpediniere che però non avevano un’adeguata copertura aerea (idrovolanti e aerei da ricognizione avevano scarsa autonomia); la marina tedesca (Kriegsmarine, con a capo l’ammiraglio Erich Raeder) poteva contare su alcune corazzate di modeste dimensioni (quelle più grandi non potevano essere costruite per le condizioni dell’armistizio del 1918), due incrociatori pesanti, otto incrociatori leggeri, alcuni moderni cacciatorpediniere e una cinquantina di sommergibili U-boot.
LA SUPREMAZIA TEDESCA NELL’ATLANTICO
Dopo alcune schermaglie iniziali, il primo successo di un certo rilievo fu ottenuto dal sottomarino tedesco U-47 che, il 14 ottobre 1940, penetrò nella base inglese di Scapa Flow (situata nelle isole Orcadi) e affondò la corazzata “Royal Oak”.
Negli anni 1939 e 1940 gli U-boot controllavano tutte le rotte mercantili nell’Atlantico. In tre mesi di guerra essi avevano affondato più di 100 navi britanniche e, con la sconfitta nella Francia sei mesi dopo, potevano anche contare su nuove basi dislocate nei porti della Manica. I convogli inglesi venivano attaccati prevalentemente durante la notte; nell’ottobre del 1940 in sole 4 notti, i tedeschi affondarono 32 navi nemiche.
Lo sviluppo della tecnologia elettronica anti-sommergibile da parte della Royal Navy era ancora in una fase iniziale e le perdite che essa dovette subire erano ingenti.
L’AUTOAFFONDAMENTO DELLA GRAF SPEE
Oltre ai sottomarini, anche le piccole corazzate tedesche si rendevano protagoniste di affondamenti di naviglio nemico; ad esempio la “Graf Spee”, tra il settembre e il dicembre 1939, mandò a picco prima la “Clement” e poi sei navi mercantili nell’Atlantico seguite da altre tre nell’Oceano Indiano. Prima di rientrare in Germania, il suo comandante venne informato che un grosso convoglio britannico doveva salpare da Montevideo, in Uruguay; insieme a un’altra nave, la “Altmark”, si diresse verso le navi inglesi e, nonostante fosse presa di mira dai colpi avversari da più direzioni (i proiettili non riuscivano a perforare la sua corazza), riuscì a mettere fuori uso la “Exeter”. A causa di lievi danni riportati, la Graf Spee si diresse al porto di Montevideo ma, siccome l’Uruguay era formalmente neutrale, non poteva sostare a lungo e fare le dovute riparazioni; rendendosi conto che le navi britanniche lo stavano aspettando una volta tornato in mare aperto, il comandante decise di far sbarcare l’equipaggio e far affondare la nave.
LA DISTRUZIONE DELLA FLOTTA FRANCESE A MERS-EL-KEBIR (Operazione “Catapult”)
Quando la Francia, il 23 giugno 1940, fu costretta alla resa dai tedeschi, la sua flotta, considerata la quarta al mondo, era praticamente intatta; al momento dell’armistizio la “Marine Nationale” era composta da 6 corazzate, 2 incrociatori da battaglia, 7 incrociatori pesanti, 12 incrociatori leggeri e un buon numero di cacciatorpediniere.
Gli inglesi erano molto preoccupati sulla sorte delle navi francesi perché, se fossero passate sotto il controllo tedesco, la Germania avrebbe dato molto filo da torcere alla Royal Navy sia nel Mediterraneo che nell’Atlantico.
La maggioranza delle navi da guerra francesi si diresse nelle basi navali dell’Algeria e dell’Africa Occidentale Francese, più precisamente nei porti di Orano e Mers-El-Kebir. Nonostante il capo della flotta francese, l’Ammiraglio Darlan, avesse assicurato che per nessun motivo le sue navi sarebbero state consegnate al nemico, gli inglesi non si fidarono e organizzarono una potente squadra navale (detta “Forza H” e composta da più di 15 navi compresa la portaerei “Ark Royal”) al comando di Sir James Somerville; quest’ultimo aveva gli ordini di convincere le autorità francesi a continuare a combattere al fianco della Gran Bretagna e, in caso di rifiuto, doveva ottenerne la resa attaccandole e affondando le loro navi.
Il 3 luglio, prima delle 18, dopo una giornata di trattative, gli inglesi aprirono il fuoco sule navi ex alleate e, nel giro di poco tempo, affondarono la corazzata “Bretagne” e danneggiarono la “Dunkerque” e la “Provence”; alla fine i morti furono 1.297.
L’attacco inglese causò molta indignazione tra i francesi; sarebbero occorsi due anni, l’intervento degli americani e l’invasione tedesca della zona libera di Vichy perché le forze francesi del Nordafrica non opponessero più resistenza.
LA BATTAGLIA DI PUNTA STILO
La battaglia di Punta Stilo si svolse nelle acque del Mar Ionio il 9 luglio 1940 tra le navi italiane ed inglesi. Entrambe le flotte erano in mare per scortare dei convogli: quella italiana (al comando di Inigo Campioni e comprendente le due corazzate “Giulio Cesare” e “Conte di Cavour”, 15 incrociatori e 16 cacciatorpediniere) per un convoglio diretto a Bengasi, in Libia, e quella inglese (al comando di Andrew Cunningham e comprendente la portaerei “Eagle”, le tre corazzate “Warspite”, “Malaya” e “Royal Soveregn”, 15 incrociatori e 16 cacciatorpediniere) per due convogli diretti a Malta.
Nello scontro che ne seguì un proiettile da 381 mm della “Warspite” colpì la “Giulio Cesare” sul fumaiolo di poppa, lo attraversò ed esplose sul ponte senza però penetrarlo e quindi limitando i danni. I locali macchine si riempirono di fumo, si dovettero spegnere quattro delle otto caldaie e la velocità scese gradatamente a 18 nodi. In breve tempo, comunque, il fumo venne evacuato e le caldaie riattivate.
Entrambe le flotte, alla fine, rientrarono alle proprie basi senza danni particolari.
LA BATTAGLIA DI CAPO SPADA
Allo scopo di contrastare il traffico marittimo britannico nel Mediterraneo Supermarina decise di inviare la Seconda Divisione Incrociatori Leggeri (formati dal “Giovanni dalle Bande Nere” e dal “Bartolomeo Colleoni”) alla base di Lero, nelle Sporadi. Le due unità erano al comando del Contrammiraglio Ferdinando Casardi e salparono da Tripoli alle 21 del 17 luglio 1940.
La mattina seguente salpò anche una flotta inglese da Alessandria per dirigersi verso l’Egeo; questa flotta era composta da due gruppi: il primo, al comando del Capitano Collins e con il compito di pattugliare il Golfo di Atene, era composto dall’incrociatore australiano “Sydney” e dal cacciatorpediniere “Havock”; il secondo, al comando del Capitano Nicholson e con il compito di eseguire attività antisommergibili, era composto dai 4 cacciatorpediniere “Hyperion”, “Ilex”, “Hero” e “Hasty”.
Alle 6.17 del 19 luglio i due incrociatori italiani avvistarono quattro cacciatorpediniere inglesi e aprirono il fuoco; Casardi decise di aumentare la velocità a 30 nodi ma i britannici, dopo aver disteso una cortina di nebbia, riuscirono a portarsi verso nord per congiungersi con il “Sydney” e con l’”Havock”.
Casardi non sapeva della presenza di queste ultime due navi e, alle 7.30, il “Sydney” iniziò a sparare verso le unità italiane; il “Bande Nere” venne colpito fa un proiettile di 152 mm che uccise 4 marinai e ne ferì altri 4.
Alle 8.23 venne colpito anche il “Colleoni” ed ebbe subito il timone fuori uso; due minuti dopo un secondo colpo colpì la sala macchine e la nave rimase praticamente immobilizzata. Tutte le navi inglesi concentrarono il tiro sull’incrociatore italiano e un nuovo siluro tranciò di netto la prua. Gli ultimi due siluri sulla fiancata destra gli diedero il colpo di grazia e il “Colleoni” affondò alle 8.40.
Casardi decise di disimpegnarsi dagli inglesi ma, alle 8.50, il “Bande Nere” fu nuovamente colpito da un proiettile che uccise 4 uomini e ne ferì altri 12. La velocità fu ridotta a 29 nodi a causa dello spegnimento di una caldaia ma, dopo opportune riparazioni, si riuscì a ripristinare la velocità di 32 nodi.
Alle 9.30 il “Sydney” era rimasto praticamente senza munizioni e rinunciò al’inseguimento concludendo la battaglia.
Solamente due ore dopo arrivarono i bombardieri italiani che danneggiarono leggermente il cacciatorpediniere “Havock”; quest’ultimo, insieme ad altre due unità inglesi, riuscì a portare in salvo 525 naufraghi del “Colleoni” tra i quali il Comandante Umberto Novaro (che il 23 luglio morirà ad Alessandria per le ferite riportate).
La Battaglia di Capo Spada non mancò di suscitare polemiche; i due incrociatori italiani erano veloci ma non avevano assolutamente una corazzatura adeguata. Inoltre l’intervento dell’Aeronautica fu inefficace e tardivo mettendo in evidenza, una volta di più, la mancanza di coordinamento tra la Marina e l’Aviazione. Infine venne dimostrato che l’artiglieria delle navi inglesi mandava a segno più colpi di quella della controparte italiana.
L’ATTACCO ALLA BASE DI TARANTO
La dichiarazione di guerra dell’Italia alla Grecia comportò, da parte degli inglesi, l’invio sempre maggiore di materiale bellico in aiuto all’esercito greco. Bisognava quindi organizzare continui convogli marittimi tra l’Egitto e la Grecia e, ogni volta, il rischio che le navi inglesi correvano attraversando il Mediterraneo era notevole. Il pericolo, più che dagli attacchi dell’aviazione italiana (rivelatisi in realtà poco efficaci), era rappresentato dalla vicinanza di Taranto alla Grecia: le navi italiane, infatti, avrebbero potuto raggiungere velocemente e distruggere i convogli britannici in navigazione.
Inoltre, e questo fu il secondo motivo dell’attacco a Taranto, i britannici dovevano rifornire il loro caposaldo di Malta; per loro Malta era strategica perché, essendo situata tra la Sicilia e la Tunisia, era sulla rotta che percorrevano i convogli italiani diretti in Libia.
Fu per questi motivi che gli inglesi pensarono di organizzare un’operazione con l’obiettivo di colpire le navi italiane mentre si trovavano ormeggiate nella loro base di Taranto. Un piano di attacco che prevedeva l’utilizzo di aerosiluranti era stato preparato negli anni precedenti da George Lyster (nell’autunno 1940 nominato capo della divisione di portaerei situata ad Alessandria) e questi l’aveva sottoposto al Comandante in Capo della Mediterranean Fleet, Ammiraglio sir Andrew Cunningham.
Il piano era rischioso perché Taranto era una base potentemente difesa con batterie antiaeree, cannoni, mitragliere pesanti e proiettori luminosi. Inoltre, le portaerei, da cui sarebbero decollati i velivoli previsti per la missione, si sarebbero dovute portare vicino alle coste italiane con il rischio di essere scoperte da pattuglie nemiche. D’altro canto, però, gli inglesi potevano sfruttare il fattore sorpresa dato che i comandi italiani ritenevano improbabile un attacco aereo contro la loro base, soprattutto durante le ore notturne.
Il 3 novembre, sette navi mercantili, con al seguito alcuni incrociatori e cacciatorpediniere, erano partite da Alessandria per portare benzina e armamenti a Suda e a Malta. Contemporaneamente gli incrociatori “Ajax” e “Sydney” erano partiti, sempre dalla stessa base, per trasferire truppe Creta.
Il pomeriggio del 6 novembre, invece, partirono quattro corazzate, la portaerei “Illustrious”, due incrociatori e tredici cacciatorpediniere tutti diretti verso La Valletta.
Il giorno successivo la Forza H (composta dalla portaerei “Ark Royal”, una corazzata, due incrociatori e sei cacciatorpediniere) salpò da Gibilterra con il compito di trasportare 2.150 soldati alla guarnigione di Malta.
Tutti questi convogli provenienti avevano lo scopo di confondere gli italiani sul vero obiettivo dei futuri attacchi inglesi, il porto di Taranto.
Il radar della “Illustrious” scoprì alcuni ricognitori italiani che vennero abbattuti prima di aver potuto avvertire della presenza delle navi inglesi; esse poterono giungere a Malta nella giornata del 10 novembre. La sua efficace copertura aerea, inoltre, non permise agli italiani di seguire lo spostamento della flotta britannica e, il giorno 11, questa lasciò Malta per dirigersi verso il punto prefissato da cui sarebbero decollati gli aerei per attaccare Taranto.
Quella stessa sera nella base italiana erano presenti sei corazzate (“Andrea Doria”, “Caio Duilio”, “Conte di Cavour”, “Giulio Cesare”, “Littorio” e “Vittorio Veneto”), sette incrociatori pesanti (“Bolzano”, “Fiume”, “Gorizia”, “Pola”, “Trento”, “Trieste” e “Zara”), due incrociatori leggeri (“Duca degli Abruzzi” e “Garibaldi”) e alcuni cacciatorpediniere. Il numero di navi era cosi elevato perché gli italiani erano stati costretti a concentrarvi il grosso della loro forza navale dato il numero alto di navi di rifornimento inglesi che percorrevano il Mediterraneo. L’intero porto era difeso dalla diga della Tarantola, una muraglia in massi e calcestruzzo che però era stata concepita come antisommergibile e non contro l’aerosiluramento. Vi erano inoltre 87 palloni frenati, posti nei punti da cui più probabile sarebbe giunta un’incursione nemica: 60 di questi erano però stati strappati dai forti venti che fino al giorno precedente avevano spazzato la base, e non si erano potuti rimpiazzare.
Alle 20.30 la portaerei “Illustrious” fece iniziare le operazioni di decollo per gli aerei della prima ondata. Questi giunsero sull’obiettivo qualche minuto prima delle 23.00; sei “Swordfish” scesero a quota di siluramento e squarciarono la fiancata sinistra della corazzata “Cavour” (che cominciò poi ad imbarcare acqua) e altri due tentarono di colpire l’”Andrea Doria” ma senza riuscirci. Nel frattempo quattro bombardieri attaccarono, danneggiandoli, i cacciatorpediniere “Libeccio” e “Pessagno” mentre, alle 23.15, due aerosiluranti colpirono la “Littorio” sia a dritta che a sinistra. Un ultimo Swordfish, sganciò un siluro contro la “Vittorio Veneto” ma la nave non venne colpita. Gli aerei si ritirarono alle 23.20.
Alle 23.30 vennero avvistati gli aerei della seconda ondata. A mezzanotte uno Swordfish colpì con un siluro la “Duilio”, altri due aerosiluranti danneggiarono la “Littorio” e un altro aereo attaccò la “Vittorio Veneto” ma ancora senza successo. Infine due bombardieri ed uno Swordfish si diressero verso le navi ancorate nel Mar Piccolo e colpirono alcuni compartimenti inferiori e i depositi di carburante del “Trento”. Gli ultimi aerei si ritirarono alle 0.30 del 12 novembre.
Alla fine le vittime dell’attacco furono 59.
Quella stessa notte i radar di alcuni incrociatori britannici individuarono, all’altezza di Brindisi, un convoglio italiano di quattro mercantili diretto in Albania. Gli incrociatori si avvicinarono ed aprirono il fuoco con i loro 24 cannoni affondando tutte e quattro le navi italiane. Due mezzi di salvataggio riuscirono a recuperare 140 uomini mentre i dispersi furono 25.
Per la marina italiana le conseguenze dell’attacco a Taranto furono enormi: la “Cavour” venne trasferita a Trieste per riparazioni ma non riprese più servizio per tutta la guerra, la “Littorio” fu inutilizzabile per più di quattro mesi e la “Duilio” rimase in bacino fino al maggio del 1941. La flotta italiana, in pratica, non riuscì più a passare all’offensiva per oltre un mese. Winston Churchill disse che questa era "la prima incoraggiante notizia dall’inizio della guerra”.
Dalla parte opposta solo due aerei britannici vennero abbattuti rivelando quanto fossero inadeguate le difese di Taranto. Si riteneva che gli aerosiluranti non avessero potuto colpire, a causa dei bassi fondali, le navi all’interno del porto ma venne dimostrato il contrario. Inoltre, non vennero mai utilizzate le cortine fumogene per nascondere le navi sotto attacco e non vennero mai messi in funzione i protettori ad arco voltaico per abbagliare i piloti inglesi.
Con questa incursione si dimostrò che l’aviazione era ormai fondamentale nelle battaglie navali e le portaerei divennero la componente più importante di una flotta; gli aerei imbarcati, infatti, potevano sia difendere le proprie formazioni sia attaccare quelle avversarie. Finiva invece l’epoca delle corazzate, dotate si di potenti artiglierie ma troppo lente e vulnerabili di fronte a un attacco aereo e troppo difficili da rimpiazzare.
LA BATTAGLIA DI CAPO TEULADA
La battaglia di Capo Teulada avvenne il 27 novembre 1940 tra le forze della Regia Marina italiana e della Royal Navy britannica.
Dopo l’attacco subito dalla loro flotta a Taranto gli italiani si resero conto che le loro navi ormeggiate nei porti non erano più al sicuro di quando si trovavano in mare; decisero, quindi, di utilizzare le loro unità in azioni di guerra.
La notte del 17 novembre due corazzate italiane, insieme ad altre unità, tentarono di intercettare alcune navi inglesi dirette a Malta. I britannici, una volta avvertiti, invertirono velocemente la rotta per tornare a Gibilterra e questo rovinò il loro piano di rifornimenti all’isola. Organizzarono nuovamente il loro convoglio facendolo scortare da navi provenienti sia da Gibilterra (Force H, al comando di Somerville e comprendente anche la portaerei “Ark Royal”), sia da Alessandria d'Egitto (Force D); gli italiani, una volta che lo avvistarono, uscirono nuovamente in mare per intercettarlo con una forza composta dalla 1a Squadra Navale (al comando dell'Ammiraglio di Divisione Inigo Campioni), composta dalle due corazzate “Vittorio Veneto” e “Giulio Cesare” e dalla 2a Squadra (al comando dell'Ammiraglio Angelo Iachino) composta da incrociatori e cacciatorpediniere.
Campioni ebbe precisi ordini di impegnarsi in combattimento solamente in condizioni molto favorevoli; siccome, dopo il successo nell’attacco inglese alla base di Taranto, le corazzate assegnategli erano le uniche disponibili, decise di non ingaggiare battaglia.
Il 27 novembre 1940, alle ore 11:45, Somerville fu informato che si trovava a 80 km dalla flotta di Campioni mentre, venti minuti dopo, gli incrociatori britannici videro all'orizzonte quelli italiani. Mentre le navi inglesi (eccetto il “Renown” che ebbe un’avaria e dovette diminuire la velocità) si schieravano per lo scontro, Campioni decide di sganciarsi, ma, purtroppo per lui, il sistema di comunicazioni tra le varie navi e il comando non era molto efficiente; Iachino, infatti, che non sapeva quindi dell’ordine di disimpegnarsi, stava già schierando i suoi incrociatori per la battaglia imminente.
La prima nave ad aprire il fuoco, alle 12:22 fu il “Fiume”, subito seguito dagli altri incrociatori italiani. Solamente dopo che furono già sparati numerosi colpi tra gli opposti incrociatori Iachino (esattamente alle 12:30) ricevette l’ordine di non scontrarsi con il nemico!
Disse quindi di aumentare la velocità delle navi a 30 nodi verso le corazzate italiane mentre, nel frattempo, le salve di proiettili delle navi inglesi si facevano sempre più vicini (in questa fase fu colpito e danneggiato il cacciatorpediniere “Lanciere”).
Alle 13:00 entrò a portata di tiro dei suoi cannoni la corazzata “Vittorio Veneto” che sparò 19 colpi da 381 mm senza tuttavia colpire alcun bersaglio.
Alla fine Somerville preferì non rischiare lo scontro con le corazzate italiane e decise di ritirarsi, cosa che fece anche Campioni.
Dopo vari altri tentativi, tutti falliti, da parte italiana di colpire le navi nemiche nel Canale di Sicilia (con torpediniere, motosiluranti e sommergibili), il convoglio britannico di rifornimenti e le unità di scorta riuscirono, il 29 e 30 novembre, ad arrivare indenni nel porto di La Valletta.
Le uniche navi danneggiate nella battaglia di Capo Teulada furono, da una parte, l’incrociatore pesante “Berwick” (che ebbe sette morti e una torre fuori uso) e, dall’altra, il cacciatorpediniere “Lanciere” (che ricevette due cannonate ma non ebbe vittime).
Dell’esito dello scontro Mussolini non fu soddisfatto e sostituì il suo Capo di Stato Maggiore della Marina, Cavagnari, con l’ammiraglio Riccardi.
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